di Mario Frusi
Un po’ di autobiografia per rispondere alle provocatorie domande: stare bene è alternativo? E quanto profondamente una politica di decrescita può incidere sul benessere?
Finora abbiamo trattato argomenti di approccio “dal basso”, cioè a partenza dal singolo individuo che impara a stare meglio attraverso una maggiore consapevolezza e una migliore gestione di se stesso. E già abbiamo compreso come sia possibile compiere alcuni passaggi favorevoli.
A questo punto vale la pena di cominciare ad introdurre qualche concetto di portata sociale.
La politica sanitaria è saldamente gestita dalla medicina ufficiale ad ogni livello, e con risultati lusinghieri se è vero che qualche anno fa il nostro Servizio Sanitario Nazionale si è piazzato al secondo posto, subito dietro quello francese, nella graduatoria mondiale di qualità sanitaria. E allora cosa vorranno mai i sostenitori, come me, delle cure alternative-complementari?
Spero di riuscire a dimostrare che non esistono diverse medicine, le quali per forza di cose debbano essere in conflitto fra loro, bensì un unico, sincero ed onesto sforzo scientifico di comprendere la sofferenza e i modi per sanarla.
Sin dal mio internato ospedaliero in quanto studente constatavo la difficoltà di comunicazione con il malato: i medici alla cui tutela io ero affidato, pur animati da intenzioni lodevoli spesso non riuscivano ad entrare autenticamente in contatto con l’assistito perché “traditi” dal loro bisogno di inquadramento organico che non teneva conto, per esempio, del sospiro emesso dal paziente quando l’anamnesi toccava un episodio dall’apparenza clinica marginale ma dal forte impatto emotivo, oppure dei commenti incalzanti (cioè ansiosi) di una madre alla banale tonsillite del figlioletto…Il risultato di questa difficoltà comunicativa si traduceva in un’insoddisfazione reciproca: il paziente sentiva di non essere stato compreso nel suo autentico bisogno, il medico a sua volta iniziava a detestare quel paziente troppo pretenzioso.
Pur intuendo questa dinamica, non avevo strumenti per gestirla: li ho trovati solo al termine di un lungo percorso psicoterapico, sfociato poi in una scuola di formazione in psicoterapia gestalt grazie alla quale ho imparato a riconoscere e gestire costruttivamente il linguaggio parallelo del non-detto.
Questo non poteva bastare: posso mostrare di aver profondamente compreso la sofferenza del paziente, ma devo anche sapergli fornire il sollievo necessario; e accade spesso, purtroppo, che la nostra medicina ufficiale sia impotente di fronte a molti disturbi di per sé non gravi, magari, ma insostenibili da chi li subisce. Quanto è lunga la lista dei sintomi aspecifici (un senso di squilibrio così blando che l’otorinolaringoiatra e il neurologo non ci fanno caso, ma il paziente sì; un doloretto di pancia per il quale tutte le indagini possibili si sono rivelate negative ma che riemerge ogniqualvolta il telefono squilla; quel fastidioso formicolio al braccio che non risponde alla fisioterapia o ai polivitaminici; una crisi di batticuore, “di nessuna pericolosità” assicurano i cardiologi, che colpisce inaspettatamente e per arginare la quale esistono soltanto farmaci preventivi che provocano anche stitichezza o spossatezza; le mestruazioni così puntualmente debilitanti…) che i nostri sofisticati macchinari ad alta tecnologia non sanno diagnosticare e i nostri costosi medicinali non sanno alleviare?
Occorreva allora un approccio teso a correggere prevalentemente il disturbo quando non esista ancora una patologia di struttura bensì “soltanto” di funzione alterata: la posturologia, le cosiddette riflessoterapie (agopuntura, neuralterapia, massaggio connettivale…), l’omeopatia (nonché le sue versioni più moderne, omotossicologia e omeopatia di risonanza, che hanno ricevuto ormai ampi consensi scientifici), pur non agendo soltanto a livello funzionale cioè superficiale ottengono in quest’ambito risultati a volte addirittura eccellenti.
Tutto questo mi ha portato a riconsiderare l’alimentazione: non è pensabile voler curare lo hardware (il danno d’organo) o il software (il danno funzionale) se non si interviene radicalmente sul nutrimento che all’organismo viene fornito. Mi sono perciò occupato approfonditamente di svariati aspetti della nutrizione, come già si è potuto cogliere in questo blog, in modo da offrire a chi ne abbisognava (tutti, verrebbe da dire senza troppo esagerare…) una “cura del cibo” che non offendesse le abitudini e si rivelasse purtuttavia efficace.
Ma perché, per tornare alla domanda iniziale, sto parlando della mia carriera professionale “alternativa”? Qual è il collegamento?
Io ne vedo parecchi. Un paziente – e cittadino – consapevole infatti
-non intasa il pronto soccorso o l’ambulatorio del medico di base per disturbi che ha imparato a gestirsi in proprio con poco impegno e ancor minore spesa;
-si programma uno stile di vita globalmente più sano, il quale a sua volta gli garantisce un minore assenteismo lavorativo e un minore accesso alle prestazioni del SSN;
-è di esempio per chi gli vive accanto;
-diventa soggetto attivo nei programmi di promozione del benessere, potendo “dire la sua”.
In qualche misura mi sento di affermare che, pur in un ambito (qual è il mio) esclusivamente libero professionale, cioè di contatto con il singolo soggetto che usufruisce del mio intervento, è possibile anzi doveroso ritagliarsi uno spazio di intervento sociale.