di Pierluigi Sullo
Là per là, quando mi hanno detto che il Premio Nobel per la pace è stato assegnato a Barack Obama, ho pensato a uno scherzo. Invece è vero. Il presidente degli Stati uniti, che è tale da appena dieci mesi, ha battuto ogni record di velocità. Ad Arafat e Rabin, il Premio, e l’inizio di un riconoscimento reciproco, erano costati decenni di guerra. E anche Henry Kissinger, che prese il Nobel per la pace insieme alla sua controparte nordvietnamita [che lo rifiutò], aveva dovuto sudare anni, come segretario di stato addetto alle guerre e a golpe come quello in Cile.
Carta è un po’ criticona: qualche mese fa in copertina mettemmo Obama con in testa l’elmetto, alla «Full Metal Jacket», con il titolo «La guerra di Obama», ovviamente quella in Afghanistan: ci domandavamo come il presidente del «we can» avrebbe potuto uscire dalla guerra-pantano che costa la vita a soldati statunitensi, italiani, della Nato, oltre naturalmente ad ammazzare moltissimi afgani e a produrre i profughi che noi «respingiamo» in mare nei porti di Ancona e di Venezia. Infatti non ha potuto uscirne, ed anzi sta discutendo se e quanto aumentare le truppe intorno a Kabul, visto che i generali premono. Ed è vero che abbiamo visto aperture, da parte degli Stati uniti, impensabili ai tempi di Bush: ai musulmani, agli africani, al disarmo nucleare totale, perfino all’Iran [nonché sopportare la presenza di Gheddafi al G8 dell’Aquila]. Tutti segnali incoraggianti, non c’è dubbio, E allora forse il Nobel è sostanzialmente un augurio: magari il comandante in capo dell’esercito più potente del mondo, che attualmente è impegnato in guerra in Iraq e Afghanistan, non sarà preda degli interessi militari-industriali-petroliferi che hanno sempre comandato la politica estera degli Usa. Tocchiamo ferro, dice questo Nobel.
fonte
http://www.carta.org/editoriali/18498