OGGI DENUNCIO FACEBOOK

Oggi presenterò una denuncia contro Facebook al presidente dell’Autorità
garante dei dati personali, il professor Francesco Pizzetti. Con il mio
legale sto valutando di ripetere l’iniziativa con l’autorità per le
Comunicazioni. Cos’è successo? Nulla di nuovo, purtroppo, non sono che
uno dei tanti cui Facebook ha cancellato l’account senza alcun
“warning” o avviso preventivo: centinaia di messaggi personali, decine
di testi e foto, 859 contatti. Il tutto senza dare spiegazioni, senza
dirmi il motivo del provvedimento. Ho perciò deciso di fare di questa
vicenda il terreno di una battaglia non personale ma di diritto. Non si
tratta di riavere indietro le mie poche carabattole digitali.

E’ una questione di trasparenza e di legalità negate.

Ma facciamo un passo indietro e vediamo i fatti nel dettaglio. Poi faremo qualche ragionamento.

“Il tuo account è stato disabilitato” e non ti diciamo perché
Alle 7,02 del mattino di venerdì primo maggio ho aperto dal mio iPhone
il programma di consultazione di Facebook. Non riuscivo ad entrare:
login o password non corretta, era la risposta del sistema. Mi sono
insospettito: le password erano memorizzate, non potevano esser
cambiate da sole. Allora ho acceso il computer ed ho visto il messaggio
di condanna: “la tua password è stata disabilitata”. Mi dicono che
posso contattare il team che si occupa dei rapporti con i clienti.

Nella foto: Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook“Leggi i terms of service, paisà” – Ovviamente
scrivo subito all’indirizzo che mi è stato dato, in italiano e, poiché
conosco i miei polli, anche in inglese. Pochi minuti e mi arriva una
mail (in inglese). Evidentemente automatica. Dice che hanno ricevuto la
mia segnalazione, ma che nel frattempo mi consigliano di leggere i
termini d’uso – come per dire: hai la coscienza sporca, guardati
dentro. E io li rileggo – l’avevo già fatto, perché mi occupo di questo
campo da 17 anni – e ho la conferma di ciò che già so: non ho violato
nessuna delle regole d’uso di Facebook.

Ma
non posso fare a meno di notare la follia di un documento scritto in
parte in italiano ed in parte in inglese. I passi nella nostra lingua
non sono stati nemmeno rivisti da un correttore: ci sono parentesi che
non si chiudono, errori di lessico e qualche passaggio in puro italiano
“broccolino”. Sembra di stare nel Padrino con Marlon Brando.

Ma non siamo qui per fare colore: un testo come questo, che equivale a un contratto, è nullo perché
non scritto in modo consono. Ma intanto – mi dico – mi risponderanno e
mi daranno la possibilità di spiegargli che si sono sbagliati…”.
Amenoché…

“A pensar male, con tutto ciò che segue…”
– A pensar male e a far peccato, ci sarebbero due o tre “stati”, i
pensierini di Facebook, in cui ho ironizzato su fatti di cronaca. In
uno ho scritto che si attendeva un pronunciamento del papa contro i
wurstel (una battuta abbastanza tiepida sull’onnipresenza delle
dichiarazioni pontificie, pubblicata mentre imperversava la paura
dell’influenza suina).

E
poi ci sono vari articoli in questo post/rubrica in cui ho criticato
Facebook, proprio a proposito di ciò di cui mi sto occupando adesso: il
fatto che se succede il sia pur minimo incidente con il social network
non hai a chi rivolgerti perché l’azienda di Mark Zuckerberg si rifiuta
ostinatamente di aprire una rappresentanza italiana e il quartiere
operativo europeo, che è a Dublino, resta un’entità lontana,
irraggiungibile. Ma dai, mi son detto, stai a vedere che con 7 milioni
di utenti in Italia se la prendono proprio con te.

Intanto erano passate 24 ore e dal “team” ancora nessuna risposta.

I robot di Facebook e la paranoia
– Per la verità ho anche scritto più volte che Facebook è un grande
fenomeno da prendere in seria considerazione. E l’ho onorato con la mia
presenza e con i miei pensieri, come altri milioni di italiani fanno
ogni giorno. L’ho fatto perché di cultura digitale scrivi se sei con le
mani in pasta nelle diverse applicazioni, oppure fai solo elzevirismo
inutile (e poi mi piace, ciò che posso dire di tutto il mio lavoro).

In
marzo, dopo che avevo riferito dell’account disabilitato (e poi
riattivato) a Nino Randisi, giornalista siciliano antimafia, ero stato
contattato in modo riservato da un professionista italiano. Era latore
di un messaggio da parte di una dirigente americana di Facebook. Mi
spiegavano che si era trattato di uno spiacevole incidente frutto
dell’errore dei “bot”, cioè di programmi che lavorano in automatico e
controllano l’attività degli utenti. Mi dicevano che può avvenire
quando magari uno “si muove troppo”, mette tanti video, pubblica troppe
foto, manda migliaia di mail e ha troppi commenti. Un errore della
“macchina” insomma. Avevo preso nota della rettifica,
l’avevo pubblicata, avevo ripetuto che mi sembrava un modo non
rispettoso delle persone e degli utenti italiani di gestire le cose
solo in automatico e senza un minimo di saggezza umana.

(Io
per la verita mi “muovo” poco. Mando sì molte mail – siamo però
nell’ordine delle decine al giorno – ma tutte alle stesse persone,
perché Facebook fa presto a diventare una chat in differita.
Certo,
c’è chi mi ha suggerito che si potrebbe ipotizzare che alla parola
“papa” sia associato un certo grado di vigilanza da parte dei medesimi
robot… ma Fb è piena di satira sul papa e le posizioni del Vaticano,
dovevano beccare proprio me?
)

L’accusa non detta e il “sentirsi sporchi”
Più di uno mi ha prospettato l’idea che qualcuno che conta si sia
voluto liberare del mio account: si può fare, si può segnalare
all’azienda che i contenuti di un certo utente sono “inappropriati”,
poi però ci sarebbe da vedere chi è che valuta la segnalazione. Ma
insomma, non sono paranoico fino a questo punto e comunque vado anche
oltre: riconosco il diritto di Facebook di liberarsi di chiunque, ma
solo dopo aver detto con chiarezza quale infrazione è stata commessa.

L’aspetto
“culturalmente” inquietante di tutto ciò è che essere buttati fuori da
un giorno all’altro e senza spiegazioni ti mette in uno stato di
anomia. Ti fa sentire già colpevole anche se non conosci l’accusa. Ricordate Kafka? : Qualcuno doveva aver calunniato Josef K, perché senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato…“.

E’
un meccanismo emotivo potente. Ho parlato con almeno cinque amici che
hanno insistito per interi quarti d’ora sul tema: “Riflettici, qualcosa
hai fatto, non possono averti buttato fuori per niente”.
Istintivamente, le persone tendono a ritenere colpevole chi è l’oggetto
di una pena “preventiva”.

E a proposito: a questo punto erano passate 48 ore dalla mia mail a Facebook: nessuna risposta al mio messaggio…

Un problema di diritto
– Ora, se permettete, qui il problema non è personale. Non sono i miei
contatti, cui pure tenevo molto. E non è nemmeno problema di cosa abbia
fatto io, per quanto io non abbia fatto nulla di irregolare.

Qui
il problema che abbiamo di fronte è quello dei diritti degli utenti di
Facebook e delle regole della piattaforma, che non possono andare
contro i principi che regolano lo stato italiano, oltre ad essere
contrari ad ogni buon senso
. Del resto queste grandi aziende sono
molto “ragionevoli” quando sbarcano in paesi come la Cina: dicono che
le leggi locali vanno rispettate.

Quelle di un paese democratico possono essere ignorate?

E’
ora che questa assurdità venga corretta. Posso anche accettare di
essere espulso, se mi si spiega il motivo del provvedimento e mi si dà
la possibilità di argomentare in mio favore.

Ogni altro comportamento da parte dei gestori del sistema è illegale.

Habeas data: signori legislatori, ci sentite?
Ho difeso Facebook contro l’emendamento repressivo del senatore D’Alia
e lo rifarei mille altre volte. Penso che ci sia un’oscena tendenza
dell’establishment a pensare in termini di “normalizzazione” repressiva
di internet. Non è questo il caso, non il mio almeno. Non sto chiedendo
nessuna legge ammazzafacebook e meno che mai misure a pioggia che
danneggino le aziende americane che in Italia hanno rappresentanza e
reperibilità. Solo il rispetto dei diritti degli utenti di Facebook e
di qualsiasi altra azienda che attui policy simili.

Signori
deputati e senatori, signori deputati europei vecchi e nuovi:
occupatevi in modo positivo della vita digitale, invece di provare a
stroncarla, filtrarla, censurarla, e magari regalarla ai padroni del
vapore, oh scusate, di cavi e “cellule”… E quindi.

Quindi l’espressione Habeas data non
è mia, ma si pone ormai come un tema della società contemporanea. Non
solo per le mie foto su Facebook (che a proposito continuano ad essere
a disposizione della piattaforma e possono essere, in teoria, riusate
da loro mentre io sono disabilitato come utente) ma per tutti noi.

Non ci sono servizi gratuiti
C’è chi argomenta dicendo che la gratuità del servizio “sospenda” ogni
diritto agli utenti. Di solito si tratta delle stesse persone che si
inviperiscono contro i giornali on line se solo gli si chiede di
lasciare un mail per inserire un commento sotto un articolo.

A
parte che dovremmo riflettere se per caso non stiamo avallando, con un
click messo distrattamente sotto scassati “terms of service”, una morte
lenta di ogni garanzia, vorrei dire con tutte le mie forze: vi
sbagliate!

Io-utente
pago Facebook e qualsiasi servizio “gratuito”: con i miei dati, il mio
tempo, i miei contenuti. E lo pago con l’uso che ne faccio, perché
contribuisco a migliorarlo e perfezionarlo. E’ questo il patto su cui
regge l’economia digitale.

Non
c’è niente di scandaloso in questo, se non la pretesa di definire
gratuito il servizio, che invece tesaurizza in pubblicità, come fanno
anche i giornali on line del resto, il tempo di vita dell’utente.

Tutto
chiaro: lo scandalo sta semmai nel volersi comportare come principi di
secoli antichi. Però Don Giovanni è finito all’inferno, e Josef K. non
abita più qui. O sì, invece?

Ridatemi i miei contatti: e che me li ridiate o meno, da oggi in poi su questo tema è battaglia.

(Nel
momento in cui questo post viene pubblicato sono passate 76 ore
dall’invio del messaggio di segnalazione: non ho ricevuto alcuna
risposta).

DI VITTORIO ZAMBARDINO

http://informazionesenzafiltro.blogspot.com

Fonte articolo

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