La grazia e il senso del peccato

Pietro Citati – “la Repubblica” del 10 luglio 2010

Tutti i cattolici osservano da tempo la condizione di inquietudine e d’ angoscia, che occupa la mente di Benedetto XVI. Nemmeno Paolo VI, negli anni del terrorismo e della crisi teologica, aveva conosciuto quanto sia arduo e terribile rivolgere agli uomini una parola di quiete. Non possiamo immaginare nessuna forma di cristianesimo senza la presenza del peccato. Gesù ha liberato gli uomini dalla colpa di Adamo; e ha costruito un’ arca, la Chiesa, dove il peccato non dovrebbe penetrare. Eppure né la sua incarnazione, né la sua morte sulla croce, né l’ assunzione in cielo hanno abolito la lunga ombra che il peccato lascia cadere sul mondo: esso occupa quasi ogni cuore; sconfigge i desideri e le volontà di bene. È lì, ineliminabile, qualsiasi cosa facciamo. “Il volere è in mio potere, ma compiere il bene no- diceva Paolo – . Sicché non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio. Ma, se faccio il male che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me”. Secondo Benedetto XVI, alla fine del ventesimo e al principio del ventunesimo secolo, il regno del peccato si è esteso. Quasi nessuno prega, varca le porte delle cattedrali, pensa a Dio e a Cristo, rispetta le leggi della Chiesa sulla vitae la morte. La società è profondamente irreligiosa e anticristiana. Se non scorgiamo Satana, come ai tempi di Hitler e di Stalin, migliaia di piccoli Satana frequentano e dominano il mondo. Anche i muri dell’ arca sono crollati: il peccato è penetrato nella Chiesa, come rivela la vicenda dei preti pedofili, che ha colpito così profondamente il cuore di Benedetto XVI. Quasi ogni traccia di quel sentimento luminoso e trionfale, che emanava dalle parole di Giovanni Paolo II, sembra scomparso. Nelle parole di Benedetto XVI, c’ è soprattutto dolore e amarezza. Il senso acuto del peccato contribuisce alla ricchezza e alla complessità del Cristianesimo: una complessità che, per esempio l’ Islam, che ignora in gran parte il peccato d’ Adamo, non possiede. Il cristiano si ascolta: studia i suoi sentimenti, analizza i suoi pensieri, e scruta se, in qualche luogo del cuore, la menzogna e la ribellione hanno lasciato la loro ombra. Non si fa illudere dalle rappresentazioni teatrali del bene. Diffida di qualsiasi forma di ottimismo. Così nascono grandiose esperienze dell’ anima, come quelle di Paolo, di Agostino e di Pascal. Ogni volta che il cristianesimo ha cancellato l’ idea di peccato, ha rischiato di perdersi: quest’ idea può venire abolita solo alla fine dei tempi, quando la Gerusalemme celeste scenderà sulla terra, la Gloria divina bagnerà di luce le sue mura, e “l’ albero della vita” tornerà a crescere come nell’ Eden. Mi chiedo se i timori di Benedetto XVI siano giustificati. E’ proprio vero che, da cinquant’ anni, viviamo in un’ epoca “scristianizzata”, nella quale la Chiesa è ignorata e derisa? Forse le folle che un tempo riempivano le chiese sono diminuite: ma quelle folle non leggevano i Vangeli, e vedevano nel Cristianesimo soprattutto una difesa e un baluardo della società civile. Credo che sia vero il contrario. Da secoli, non esisteva nel cristianesimo un nucleo così puro ed ardente come quello di oggi: giovani, e meno giovani, che leggono i Vangeli, li meditano, capiscono come ogni parola pronunciata da Cristo sia ancora viva, scoprono i Padri della Chiesa greci, o latini, o siriaci: pregano, sia pure in solitudine; e cercano di diffondere la testimonianza di Cristo nei paesi dell’ Africa. Si tratta, dicono, di una minoranza: ma il cristianesimo, per ciò che importa, è sempre stato una minoranza: non solo nel II o nel III secolo; ma persino nel XIII o nel XVI secolo, quando erigeva trionfali cattedrali a sé stesso. Così il pessimismo di Benedetto XVI e dei suoi collaboratori mi sembra eccessivo. L’ Europa non è scristianizzata; e quindi non è necessario arroccarsi in difesa, e costruire mura, torri, fortificazioni, contro i barbari che si raccolgono davanti alle porte delle chiese. Credo che la coscienza del peccato, che colma il cuore di Benedetto XVI, possa essere pericolosa. La vita cristiana non può che essere dominata dalla gioia: la gioia di esistere, di vivere, di ridere, di vedere, di passeggiare, di pensare, di scorgere le immagini della mente e del mondo: la gioia del presente, che recupera la letizia del passato, e anticipa la felicità del futuro; la gioia dei bambini, che forse riusciranno a conservare fino alla morte la loro condizione infantile. Sappiamo quale sia l’ origine di questa gioia. La luce della grazia scende dal cielo e avvolge a poco a poco tutta la terra: rischiarai pensieriei sentimenti ed ogni angolo abitato o deserto. Sotto forma di fede, questa grazia ritorna nel cielo da dove è discesa: perché la fede non è altro che grazia umanizzata. Un altro rischio è più sottile. Qualche volta, la chiesa vuole essere approvata dal mondo: pretende che le sue leggi, per esempio sull’ aborto o l’ eutanasia, diventino leggi civili. E, d’ altra parte, il mondo cerca di assorbire la Chiesa, trasformandola in un potente sostegno di sé stesso, o nella parte “virtuosa” di sé stesso. Mentre la Chiesa non può mai dimenticare di essere un’ eccezione: qualcosa di originario e straordinario, che ignora le norme della società e della politica. La Chiesa non ha alcun bisogno di essere moderna: anzi non deve essere moderna. Deve restare un residuo dei tempi antichi, o un riflesso o un barlume del cristianesimo degli apostoli e dei padri, in mezzo alla società di oggi. Il suo linguaggio non è razionale: è il paradosso, il balzo oltre la ragione, la rottura delle norme, il verbo dei Vangeli e di Paolo, che hanno portato lo scandalo sulla terra. Spesso dimentichiamo quanto questo scandalo illumini la nostra normale vita quotidiana: molto più delle analisi psicologiche e sociologiche, nelle quali abbiamo tanta fiducia. Il mondo di oggi non sopporta la condizione dei sacerdoti cattolici: non tollera che essi obbediscano al principio della castità, nel quale vedono una specie di maledizione, perché interrompe il ciclo continuo della vita. Credo, invece, che questa castità sia un segno di elezione: il segno della distanza, della differenza, dell’ eccezione, rispetto al resto della vita. Un sacerdote non è, come oggi si dice, un uomo come gli altri: che vive in famiglia, con la moglie e i figli, e obbedisce alle richieste, sia pure benevole, del mondo. Non è il pastore protestante, rappresentato e deriso nei romanzi di Jane Austen. E’ un erede degli antichi eremiti: porta in sé il ricordo di sant’ Antonio. Come in Platone, trasforma le forze represse di Eros nel desiderio intellettuale e mistico di Dio, che lo abita senza fine.

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