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Editoriale
Sbaglia chi guarda al Forum sociale mondiale di Belém, nell’Amazzonia brasiliana, come a un ring su cui si affronteranno i sostenitori della società civile e i fan dei governi di sinistra, ossia del «ritorno alla politica». Il senso del primo Forum, otto anni fa a Porto Alegre, fu: i modi di organizzarsi e di agire delle sinistre del secolo scorso non sono in grado di affrontare la globalizzazione neoliberista, quindi occorre un altro modo di agire e di mettersi assieme. Quel messaggio non è stato nel frattempo superato dal fatto che in America latina, in cinque paesi, si sono affermati governi dichiaratamente non-liberisti [in Venezuela, Ecuador, Brasile, Bolivia e Paraguay]. Al contrario, si può dire che la nascita di questi governi è un effetto dell’ondata di movimenti sociali e indigeni che ha cambiato la geografia sociale e politica dell’America latina. Non sono le organizzazioni sociali a dover «aderire» ai «governi amici»: sono piuttosto questi ultimi a dover misurare la propria azione sulla diffusione di forme altre di democrazia e di economia: ciò che il Brasile di Lula non sta facendo, e che la Bolivia di Morales ha fatto, almeno in parte, con la nuova Costituzione approvata dal voto di due giorni fa.
Guardare al Fsm come al «ritorno della politica» significa per altro ignorare il luogo e i protagonisti di questa edizione del Forum: l’Amazzonia e appunto i popoli indigeni. La grande recessione si espande come uno tsunami in tutto il mondo, le fondamenta del neoliberismo si stanno sgretolando, sul terreno restano povertà e disastro ambientale. L’Amazzonia ne è un simbolo. Il Fsm a Belém raccoglie tutte le premesse di Porto Alegre e le moltiplica: «un altro mondo è possibile», infatti.