di Nicola Silenti da Destra.it
Confinare i partiti nell’oblio delle proprie logiche perverse e scellerate e affidarsi ai singoli uomini. Mentre notiziari e social network duellano a suon di retroscena nell’instancabile gara a chi la spara più grossa, tra i rivoli di questa eterna campagna elettorale mediatica e i soliti peana degli europeisti a tutti i costi, a balzare agli occhi con evidenza disarmante è la desolante penuria di protagonisti e l’assordante assenza dei partiti.
In realtà, di una crisi irreversibile dei partiti politici di massa, specie quelli eredi delle categorie ideologiche del Novecento si parla ormai da decenni, di certo da ben prima che l’attenzione di editorialisti e studiosi vari fosse monopolizzata dal dibattito su antipolitica, sovranismo e populismo nelle declinazioni grilline o leghiste che siano. Di certo la crisi dei movimenti di massa ha generato nelle società del vecchio continente un vuoto incolmabile laddove un tempo non troppo lontano l’attivismo politico riusciva ad avere libero sfogo in un lungo e multiforme corollario di sezioni, associazioni, organismi sociali e culturali e officine di pensieri e riflessioni. Un vuoto a tutto discapito delle giovani generazioni, esposte in troppi casi a un presente desolante e incapace di offrire modelli culturali e proposte credibili. Preso atto della crisi irreversibile del partito di massa e dell’estinzione ormai acclarata del modello di società di cui questo era espressione, in questo presente di transizioni e mutamenti repentini si consolida come fenomeno prevalente sul lungo periodo quello della personalizzazione della politica e dell’accentramento delle funzioni in una singola figura, quella del leader. Un leader capace di accentrare su di sé istanze e aneliti di una base indistinta senza più corpi intermedi e in grado di porsi come interlocutore unico di una società che si fa ogni giorno di più frammentata: una società disorientata e impaurita perché colpita al cuore dei suoi valori fondanti, dileggiata dagli egoismi di un potere autoreferenziale e costretta a veder messa in discussione l’essenza stessa del suo senso di appartenenza.
Quale che sia il punto di vista di ognuno, a ben vedere la crisi di legittimazione dei partiti e l’imporsi della personalizzazione della politica è un processo che spesso è sintomo dell’identificazione tra elettore e leader: un meccanismo che costringe il singolo elettore a porsi con forza il problema della credibilità degli uomini cui destinare la propria fiducia, del loro spessore morale e delle loro capacità. Una svolta culturale nel segno del pragmatismo e della concretezza delle cose tangibili, impressa alla quotidianità dell’elettorato dalla fine di un mondo e di un’epoca: l’epoca delle battaglie campali tra centrodestra e centrosinistra, tra leaders in pectore e presunti tali, tra investiture a furor di congresso e benedizioni di pensatoi più o meno reconditi.
Di certo, come annunciato nei giorni scorsi da autorevoli esponenti della Lega, nel confronto elettorale prossimo venturo non sarà di scena «il centrodestra per come lo abbiamo conosciuto». Un’affermazione con cui si scrive ufficialmente la parola fine al berlusconismo e che sembra lasciare il campo aperto alle nuove urgenze popolari del sovranismo e a una nuova azione politica dal basso che promette un’inversione di tendenza nel modo di intendere la cosa pubblica, mai come oggi segnata da un crescendo di aspettative in materia di occupazione, fisco e giustizia sociale. Un capovolgimento culturale di non poco conto, se si pensa alle tante carriere immeritate e alle tante fortune ingiustificate di personaggi balzati agli onori del potere soltanto grazie all’insindacabile investitura del Capo che fu, troppo spesso senza il necessario corollario di competenze, capacità e carisma, e che ora smobilitano in fretta e furia per lasciare spazio, finalmente, ai tanti amministratori e alle tante personalità che possono arrogarsi, e a ragione, il diritto e l’onere di scrivere una nuova pagina della storia d’Italia.