Medico nel carcere di Procida per venticinque anni

Rovistando nei nostri archivi abbiamo recuperato un articolo/documento di grande sensibilità del dott. Giacomo Retaggio in cui racconta le proprie esperienze di vita nel carcere di Procida dove ha prestato servizio come medico per venticinque anni.

A vederlo dal mare, mentre ci si avvicina all’isola di Procida, il vecchio castello del carcere appare come uno spettro, con le “bocche di lupo” vuote, l’intonaco cadente, le inferriate arrugginite e quasi del tutto divelte.
Al turista sbracato e distratto appare come un corpo senza anima, vuoto, avvolto nel silenzio rotto solo dalle grida dei gabbiani e dal sibilo del vento (quando c’è) , quasi un gemito doloroso attraverso le stanze spoglie, ormai, di uomini e di cose.
L’imponente cinquecentesca costruzione sta crollando , forse nell’inconscio tentativo di annullarsi e di far sparire tutto il male che ha custodito per quasi due secoli.
Eppure son poco più di dieci anni che è stato chiuso…
Quando, per un motivo o per un altro, inerpicandomi per la ripida salita, giungo davanti alla “grande porta” , ormai corrosa ed incolore, con la scritta “VIGILANDO REDIMERE” a contorno dell’arco, un brivido mi attraversa la schiena. Come tanti anni addietro…
La prima volta che varcai quella soglia avevo venticinque anni e pochi mesi di laurea. Il posto di “medico del carcere “ era rimasto vacante ed i miei colleghi più anziani si trovarono tutti “amorevolmente” d’accordo sul mio nome. Stipendio mensile netto: lire 38.105 .Meglio di niente, pensai. Era l’anno 1963.
La guardia che mi aprì la porta mi accompagnò con uno sguardo diffidente ed ironico. Mi fecero attraversare un cortile basolato in cui si trattenevano alcuni detenuti, varcare uno, due, tre, quattro cancelli e mi introdussero nel carcere vero e proprio. Dai cancelli delle “ stanze” intravidi decine di carcerati vocianti in modo sbracato, molti a torso nudo, ciabattanti, volti scuri, barbe incolte, le membra ricoperte di tatuaggi.
E ovunque un tanfo di sudore, di escrementi, di cibo cotto, di piedi sporchi, che impregnava l’aria e ristagnava immobile ,rimanendoti attaccato addosso: era il tanfo tipico del carcere.
Che non mi abbandonerà più…
La guardia mi introdusse in una camerata enorme , semibuia per la luce di una fioca lampadina che pendeva dal soffitto, in cui erano rinchiusi una trentina di carcerati, intenti alle loro faccende , la maggior parte dei quali non si voltò neanche al mio ingresso. A terra in un angolo, sorvegliato da un agente, c’era un detenuto semiincosciente, con la testa imbrattata di sangue che, colando, aveva sporcato il pavimento di basoli. S’era lanciato volontariamente con la testa nel muro e mi avevano chiamato, mi spiegò l’agente infermiere, perché ricucissi le ferite.
“Dio mio, dove son capitato” pensai tra me e ,mentre con un grosso ago suturavo le ferite, lì per terra, la mente andava ai “miei maestri” Ruggiero, Lanzara, Zannini. “Eh, si, avrei proprio voluto veder loro al posto mio! Così lindi, così raffinati, così erremosciati!
Stavo per finire il lavoro ed alle mie spalle, dal fondo della stanza, udii una voce sguaiata: “Neh, guagliù,’o crastapurcelle sta cusenne ‘a capa ‘e Saverio ‘o pazzo!”
E quello fu il primo di una serie infinita di giorni, per venticinque anni…
Perché rimasi? Perché non andai subito via? Una sorta di masochismo , un senso missionario dell’arte medica , la pietà per quei rottami umani, un inconscio desiderio di esibizionismo, mi trattennero e mi spinsero a rimanere?
Non ho mai saputo darmi una risposta. Neanche oggi. E i giorni, le settimane, i mesi, gli anni, passavano. Circa cinquecento carcerati, di cui una cinquantina ergastolani, un solo medico. Accoltellamenti quasi quotidiani, tentativi di suicidio, crisi di agitazione, mistificazioni, in una popolazione di semiuomini, analfabeti o quasi, rozzi, seminfermi o totalmente infermi di mente, la più parte reduci dai vari manicomi criminali e dichiarati “guariti”.
Pochi sanno quanto sia delicato il lavoro di un medico del carcere. Prestavo servizio da pochi giorni ed il maresciallo delle guardie, in risposta ad alcune mie rimostranze circa l’impossibilità di poter eseguire alcuni accertamenti clinici elementari, mi disse con molta franchezza: “Dotto’, qua dentro dimenticatevi di fare il medico come lo fate fuori”. Mi resi conto, in seguito, che aveva ragione. Le mura grondavano umidità, i servizi igienici inesistenti o quasi (nelle stanze c’erano ancora i bugliuoli per i bisogni corporali), il vitto scadente. Per praticare delle analisi tra le più comuni bisognava attendere il sabato quando da Napoli veniva un analista, che aveva il laboratorio a Procida ed una sorta di convenzione con il carcere. L’agente infermiere raccoglieva i campioni di sangue e urine e li portava fuori ad analizzare.
Per effettuare una radiografia bisognava accumulare parecchi casi e così, dopo uno o due mesi ,veniva un radiologo da Napoli che ,con un apparecchio obsoleto, tentava di esprimere una diagnosi. In pratica per capire qualcosa di un ammalato mi dovevo affidare quasi solo al mio intuito. L’urgenza era, poi, un vero e proprio dramma: bisognava allertare i Carabinieri, motivare bene la diagnosi per il ricovero, tener conto delle condizioni del mare e, soprattutto ,degli orari perché dopo una certa ora, specie d’inverno, non c’era nessuna possibilità di raggiungere la terraferma.
Alla fine, se tutto andava liscio, era possibile trasferire il detenuto al Centro Clinico del carcere di Poggioreale da cui, in seguito, se il caso lo richiedeva, si sarebbe potuto provvedere al ricovero presso un ospedale civile.
Non potevo effettuare nessun ricovero in altro ospedale che non fosse il Centro Clinico se non dopo l’autorizzazione del magistrato e con grave responsabilità personale. Il direttore mi disse chiaro e tondo che se un detenuto ricoverato in un ospedale civile fosse evaso , io sarei stato considerato complice della sua fuga…
Quello del carcere è un mondo colmo di ipocrisia. I carcerati sono falsi, cattivi, violenti, bugiardi, infami, tranne pochi. La direzione e la custodia hanno come unica mira l’ordine ed il regolamento, costi quel che costi. Il povero medico è costretto a galleggiare in questo mare di contraddizioni e di ipocrisie, in perenne conflitto tra ciò che la scienza e la coscienza gli indicano di fare e ciò che , date le circostanze, può realmente fare.
Il medico nel carcere è il “trait d’union” fra la custodia, i magistrati ed i detenuti. E ciascuna di queste categorie lo sa benissimo e utilizza la cosa a proprio vantaggio.
“Dottò – mi disse una volta il maresciallo – i carcerati vi stanno a sentire. Una vostra parola può sedare o scatenare una rissa. Non dite mai che il vitto è cattivo o che le condizioni igieniche sono pessime o che so altro. Potreste essere incriminato per istigazione alla rivolta. Qui dentro anche le mura hanno le orecchie e le lettere anonime camminano veloci”.
Nonostante , però, a livello razionale tutto mi consigliava di fuggire letteralmente dal carcere, nel mio intimo ne venivo attratto ed affascinato .Il mondo dei detenuti, così variegato, così complesso, così estraneo alla gente cosiddetta per bene, mi attirava verso di sé, forse, per un mio intimo impellente desiderio di conoscere, capire, uomini ed accadimenti.
Dal punto di vista medico, ormai lo avevo capito, non potevo fare gran ché, ma da quello psicologico sarei stato in grado di fare moltissimo.
Chi erano i detenuti? Uomini o bestie? E quanto della bestia c’era in ciascuno di loro?
Ognuno di essi era il frutto di una determinata condizione socio familiare o il risultato di una mappa genetica anormale? “Zio Agostino, il mostro”, come lo chiamavano, aveva ammazzato moglie ,figlio e nuora, li aveva tagliati a pezzi e sotterrati. Dopo diversi giorni ne aveva denunciato la scomparsa ai carabinieri. Scoperto ed interrogato sul perché li avesse uccisi si difese affermando che “in famiglia non gli portavano rispetto”….
Mi chiedevo cosa passasse per la sua mente e se era cosciente del delitto commesso, ogni qual volta lo vedevo aggirarsi per i corridoi , con quella sua aria di innocente fanciullezza. Fisicamente repellente, poche , rudimentali e gracili idee in testa, era stato condannato all’ergastolo. Ma chi , i giudici, avevano condannato? Un uomo, una bestia o un pazzo? E questo era il carcere adatto a lui? E c’era per lui una sola, dico una sola , possibilità di redenzione?
Essere medico del carcere non è come esercitare in un ospedale, in uno studio privato o mutualistico, in una città o in un paese.
E’ totalmente diverso perché l’utenza è completamente differente. La popolazione detenuta è un ammasso di persone , confinata in uno spazio angusto , con caratteristiche peculiari. Il solo fatto di essere in carcere già di per sé è una limitazione grave ed una emarginazione dal consorzio civile. Da questo dato discende a cascata tutta una serie di disturbi psico – fisici, inesistenti nel mondo di fuori. Ogni piccolo fastidio viene enfatizzato, si correda via via di sintomi i più disparati, si ingrossa sino a sfociare in una patologia clamorosa che spesso lascia il medico perplesso. Il detenuto per sua natura è attentissimo alla propria salute, considerandola, più delle persone libere, come l’unico bene indispensabile da portare fuori alla fine della detenzione. L’impossibilità da parte sua di poter disporre in prima persona della possibilità di potersi curare liberamente lo getta in uno stato di angoscia, che può apparire , ad un’osservazione superficiale, immotivata ed eccessiva. Se a ciò si aggiunge che questi soggetti già di per sé sono labili o francamente tarati per la maggior parte, derivando, spesso, le cause della colpa commessa propria dalla loro intrinseca natura, il quadro è completo.
Il medico del carcere deve assolutamente possedere una solida preparazione in campo psichiatrico e psicanalitico perché deve essere in grado di fronteggiare situazioni del genere . In una Casa di Pena attorno al medico ruota tutto il sistema: detenuti, custodia, magistrati. Ed io mi chiedo come , ancora oggi, si prende un medico neolaureato e lo si manda allo sbaraglio ( come fecero con me) a prestare servizio in un carcere. E mi chiedo anche come non si sia ancora deciso da parte degli organi competenti di istituire un corso di specializzazione universitaria in Medicina Penitenziaria
La Custodia, uomini sani , di estrazione contadina i più, costretti a quel lavoro non per scelta ma per necessità, era tesa ad arginare questa massa di derelitti con ogni mezzo purché fosse mantenuto l’ordine.
Ed il medico ad avallare ,suo malgrado, i trattamenti punitivi: “Può sopportare la cella di isolamento”, “Sia rinchiuso nella cella imbottita”, “Sia legato al letto di contenzione”(fortunatamente queste ultime oggi in disuso) con l’ipocrita postilla “sia attentamente sorvegliato”. Formule magiche che mettevano tutti al riparo, Istituzioni, Direzione e Custodia . Ineffabile ipocrisia!
Man mano che passavano gli anni trascorrevo sempre più tempo con i detenuti. L’ambulatorio, specie alla sera , era diventato una sorta di circolo. I detenuti si segnavano a visita spesso con le motivazioni più banali pur di entrare dal medico e scambiare quattro chiacchiere. Io lo capivo e facevo finta di niente. E si parlava, si parlava, a volte fino a sera tardi e di tutto. Delle loro famiglie, dei figli, di sport, di politica e di quant’altro capitava. Talvolta, pur con molta circospezione e ritrosia, anche del delitto commesso.
Io ascoltavo, intervenivo, discutevo con loro e penso che questo sia stato il segreto della mia “sopravvivenza” venticinquennale nel carcere. Essi non si sentivano giudicati, sopportati , spinti alla redenzione come col cappellano, ma per una mezz’ora, forse, ancora uomini tra gli uomini.
Eppure anche in questo clima cameratesco il pericolo era sempre in agguato, in ossequio alla legge che nel carcere tutto può sempre accadere da un momento all’altro.
Una sera, infastidito dalla sua eccessiva loquacità, dissi ad un detenuto: ”Stai zitto e cuciti quella bocca!”
Questi se ne uscì in silenzio e dopo una decina di minuti tornò con gli occhi che gli ridevano. Tutti i presenti nell’ambulatorio rimanemmo allibiti: s’era cucite le labbra con ago e filo! (Giacomo Retaggio)

N. B. L’argomento è trattato molto più ampiamente ed a fondo nel libro: “L’isola nell’isola” da me pubblicato nel giugno del 1999. Orientale Editrice ,Napoli.

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