di Nicola Silenti da Destra.it
Una produttività in costante crescita, investimenti al rialzo e prospettive occupazionali tutte di segno positivo. L’inchiesta sul lavoro marittimo in Italia in questo capitolo si occupa di un settore di eccellenza del made in Italy, il diporto nautico, segnato negli ultimi anni da una reazione alla crisi economica con un robusto rilancio della produzione e degli investimenti e da una generale ripresa di tutte le voci salienti del comparto. Un settore, quello della nautica, trainato da una produzione annuale in crescita del 33 per cento da almeno quattro anni consecutivi, a testimonianza di un fatturato globale che ha registrato negli ultimi anni una ripresa consolidata sino ad attestarsi nel 2017 alla cifra record di circa quattro miliardi di euro: il suggello, per intenderci, di un trend che con ogni probabilità non ha avuto eguali nel breve o medio periodo in nessun altro settore dell’industria italiana.
Una vitalità generale che è la risposta del settore al quinquennio orribile 2008 – 2013 grazie alla tenacia, all’inventiva e alla qualità di una rete capillare di artigiani e piccole imprese che sono il vero motore del pianeta mare italiano, un universo di tradizioni e competenze che è un ottimo viatico per tutto l’universo marittimo e che promette di investire con le sue rinnovate e incoraggianti prospettive, tutte le voci del comparto dalla portualità turistica e sportiva al mondo della cantieristica e delle correlate attività sportive e ricreative.
Costituito per definizione dall’universo economico che ruota intorno alla produzione di navi, imbarcazioni e natanti destinati alla navigazione a scopi sportivi o ricreativi, il settore della nautica da diporto è oggi stabilmente una delle voci più rilevanti della blue economy nazionale non soltanto per il suo fatturato in espansione, ma anche per la forza lavoro impiegata: una forza lavoro costituita da circa 21 mila marittimi del diporto ed un indotto che interessa non meno di 70 mila occupati. In termini percentuali il settore del diporto vale poco più dell’undici per cento dei posti di lavoro diretti dell’intero cluster marittimo. Eppure i marittimi del diporto,tra l’altro molti stagionali, trovano sempre enormi difficoltà a vedere rinnovati i loro certificati di competenza per l’esistenza di normative ben più restrittive di quelle di altri paesi europei. Questa situazione induce molti di loro a conseguire i titoli professionali in altri Stati dell’Unione europea e, in particolare, nel Regno Unito (MCA)con percorsi più costosi, determinando, in moti casi, una fuga di lavoratori verso bandiere estere con grave danno occupazionale che si riflette comunque sull’economia del settore, come già da tempo denunciato dalle varie Associazioni di categoria.
Indagare nel dettaglio il pianeta diporto è un’impresa quasi impossibile da realizzare compiutamente dal momento che nella totalità dei casi le indagini statistiche e gli studi dedicati prendono in esame la sola attività cantieristica, come se il settore si riducesse alla costruzione e alla manutenzione delle imbarcazioni e non fosse anche, o meglio soprattutto, un mosaico multiforme e sfaccettato di tantissime strutture e attività produttive e di servizio legate in modo indissolubile a questo mondo. Un mosaico che spazia da produzioni tessili come quelle delle vele e dell’abbigliamento tecnico alla produzione dei mobili da arredo dei natanti, alla produzione meccanica di motori, alla strumentazione di bordo ad alta tecnologia e ad un’infinità di altri prodotti specifici come gli ausili di sicurezza, le dotazioni elettriche e tante altre ancora. Tutte voci dell’industria manifatturiera italiana che si trascinano appresso un ampio ventaglio di servizi portuali e turistici per un indotto che produce un fatturato complessivo pari a circa il 45 per cento del totale del settore. Un dato che dimostra anche ai più scettici quanto la nautica sia un universo ancora da indagare per poterne comprendere e apprezzare appieno la portata occupazionale.
A conti fatti, con una produzione che cresce a un ritmo di circa il 33 per cento all’anno, la nautica si conferma un comparto capace di performance di gran lunga superiori alla media dell’industria manifatturiera nazionale. Per unanime convinzione, la ragione di questo impeto economico si deve alla tradizionale eccellenza produttiva italiana del settore, che la crisi aveva piegato anche a causa di provvedimenti rivelatisi scellerati come la famigerata tassa di possesso sulle imbarcazioni da diporto. Un provvedimento pernicioso che ha letteralmente messo in ginocchio il mercato interno e allontanato dai porti dello Stivale un gran numero di diportisti, spingendoli verso gli scali di paesi meno esosi come la Grecia e la Croazia. E non è certo un caso che la ripresa del comparto sia coincisa con l’abolizione di questa misura sciagurata, sebbene da sempre il mondo diportistico debba fare i conti con il risentimento e l’acredine culturale di chi ancora associa il possesso di un’imbarcazione, fosse anche la più sgangherata, con il possesso di un bene di lusso e quindi con lo status di “ricco”.
Al netto delle criticità culturali che ancora gravano sul settore, il presente della nautica italiana si può condensare nel suo apporto di poco inferiore al 2 per cento al prodotto interno lordo nazionale, con una crescita apprezzabile e costante anche del mercato interno. Quanto alle esportazioni i numeri confermano l’ottima salute di un settore da tempo leader mondiale nella produzione di unità di lusso, in particolare i superyacht, le unità maggiori di 24 metri, in una fascia di mercato in cui il volume della produzione italiana è riuscita a raddoppiare le vendite in meno di un decennio. Tutti numeri esaltanti che esigono il sostegno convinto di Stato ed enti locali con una più robusta politica di finanziamenti e un potenziamento complessivo delle infrastrutture, a cominciare dai porti turistici, il vero avamposto strategico di questa eccellenza italiana chiamata diporto.