In questo excursus lungo i quartieri di Procida dal carattere storico cultural- antropologico, che con un po’ di presunzione e molta faccia tosta ti sei accinto a compiere, oggi ti tocca scrivere della “grancìa” dell’Annunziata. E ti accingi a farlo con titubanza perché questa è la zona dove sei nato, cresciuto, fatto le prime esperienze. Una folla di amarcord ti assale e qualcosa ti si stringe dentro: quasi un tuffo all’indietro nel tempo. E rivedi le campagne assolate quando andavi a caccia di cavallette, i bagni senza fine che facevi alla spiaggia del Pozzo vecchio, le lunghe funzioni delle “quarantore” nella chiesa dell’Annunziata, le interminabili litanie dei santi, le terrificanti prediche sui castighi divini che dal pulpito teneva un frate francescano e tu, piccolo bambino, la notte ti sognavi i diavoli che con un forcone ti spingevano nelle fiamme dell’inferno.
E le interminabili ed accese partite di pallone lungo il viale alberato che porta alla chiesa. Non c’era neanche una macchina parcheggiata. Oggi, però, non è più così: sei cresciuto, sei diventato adulto (e dillo! Sei francamente vecchio!) e queste cose ti appaiono assurde. Ci sono automobili in sosta dovunque.
Ma la “grancìa”, la tua “grancìa”, con le sue case, i suoi volti, le sue stradine, i suoi grappoli d’uva sporgenti dalle mura dei giardini, i suoi odori ed i suoi colori ti è rimasta dentro. E’ così e non ci puoi fare niente. Quella dell’Annunziata è stata da sempre una zona rurale. Al tempo della vendemmia l’odore del mosto si diffondeva per tutte le strade e ti stordiva. Durante il mese di maggio vedevi passare sotto casa continuamente carretti stracolmi di patate diretti alla Marina dove, in magazzini profondi scavati nella roccia tufacea, nugoli di ragazze “forestiere”, le cosiddette “patanare”, le pulivano e le sistemavano in ceste per l’esportazione. Una florida economia ormai del tutto scomparsa.
E ricordi che i tuoi amici di altre zone, come Marina, Semmarèzio, S. Leonardo ti chiamavano con ironia dispregiativa “ jusino e zappatore” e tu, vantando la bellezza delle ragazze della zona, ti difendevi rispondendo: “ Chi voleva una ragazza bella ed aggiustata doveva venire all’Annunziata”. Al centro di questa “grancìa” c’era nei secoli scorsi una grande “starza”.E’ quest’ultimo un termine antichissimo di origine romana e poi medievale che sta ad indicare una vasta area di terreno coltivata ad arbusti, viti ed altro. Ancora oggi una zona di questa contrada viene chiamata dagli abitanti “for’a starza”. Nei secoli passati molti dei terreni di questa “grancìa” erano proprietà dell’Abate di S. Michele. L’inventario abbaziale del 1521 dice: “L’abate possiede una grande starza, con corte, palmenti, utensili, case ed altre fabbriche, una chiesa sotto il titolo di S. Maria del Gesù, o altrimenti del Monastile con un’altra cappella di S. Sebastiano, con campana, cisterna, forno, casa ed una torre vecchia”.
Questa chiesa con annesso monastile, che corrisponde all’attuale sagrestia dell’”Annunziata”, nel tardo ‘500 diventa “dell’Assunta”. In essa si festeggiava la festa dell’Assunzione ed in tale occasione le monache offrivano ai visitatori noci e vino. L’attuale chiesa è del ‘600 e diventa definitivamente “dell’Annunziata” nel 1667. Ma, nella visita pastorale del cardinale Caracciolo nel 1677, questa chiesa pur essendosi arricchita di due altari, dedicati a Sant’Orsola e S. Sebastiano, e pur possedendo una pisside per la distribuzione dell’Eucarestia, non viene ritenuta idonea per l’attività pastorale. Bisogna arrivare al 1698, causa principale l’aumento della popolazione della zona conseguente al progressivo spostarsi degli abitanti da Terra Murata verso altre parti dell’isola, che si pensa di dare un minimo di autonomia pastorale alla chiesa dell’Annunziata con l’istituzione di una fonte battesimale.
E questo con la motivazione abbastanza pretestuosa che un neonato in non buone condizioni di salute sarebbe potuto morire senza ricevere il battesimo, non avendo il tempo di raggiungere la parrocchia di S. Michele. Ciò valeva anche per la possibilità di impartire l’estrema unzione ai moribondi. Con queste concessioni da parte della Curia napoletana quella dell’Annunziata diventa la prima “grancia” procidana parzialmente autonoma dal Curato di S. Michele. In verità un minimo di autonomia questa chiesa l’aveva anche prima di tale data in virtù del consistente numero di abitanti. Difatti è la “Grancia” più popolosa.
Ma l’autonomia era sempre relativa perché l’ultima parola in materia di attività pastorale ed altro spettava sempre all’abate di S. Michele. Anche con l’istituzione delle altre “grancìe” verso il 1698 il problema della dipendenza da quest’ultimo non si risolverà, anzi si aggraverà perché gli stessi impedimenti saranno validi anche per le altre chiese. Tale stato di cose comporterà delle feroci e secolari lotte intestine nel clero isolano: da una parte il Curato di S. Michele più che determinato a non cedere nulla della propria supremazia e dall’altra i preti responsabili ( ma non parroci veri e propri!) delle altre chiese procidane che tentavano di scrollarsi di dosso la sua ingombrante presenza. La questione si risolverà nei primi decenni del ‘900 con l’istituzione definitiva delle parrocchie con a capo parroci a pieno titolo.
Dalla seconda metà del ‘700 e per tutto l’800 la “grancia” dell’Annunziata ha un florido sviluppo economico che aumenta ancora di più in seguito all’introduzione, ad opera dei naviganti, del culto della “Madonna della Libera” che negli anni prenderà il sopravvento. La ricorrenza della festività di questa Madonna, data mobile come per la Pasqua, cade in genere tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate. La processione dell’immagine della Vergine della Libera, con le braccia aperte e circondata da un nugolo di angeli, è un avvenimento che travalica la “grancia” e richiama gente da tutta Procida. E’ una sorta di inno alla primavera ed all’estate che avanza. La statua viene portata in processione per le stradine e si inoltra attraverso i campi coltivati e fiorenti, odorosi di limoni. A volte nelle viuzze strette non riesce a passare ed i portatori la devono abbassare perché i tralci di vite di un lato si congiungono con quelli che sporgono da muro di fronte. E’ quasi un rito propiziatorio. E la Madonna si inoltra attraverso questa natura rigogliosa e gravida di frutta come ad augurarne un abbondante raccolto. I preti, i giovani che la precedono e la folla che la segue cantano inni di gioia come in un antico corteo dionisiaco.
Dopo circa quattro ore la Vergine torna alla chiesa. Il viale alberato è illuminato a giorno, la gente ha la faccia stanca ma felice, il cielo è solcato dalle luci dei mortaretti, i preti strascicano i piedi sulla lieve salita, lungo i lati file di bancarelle, si odono pianti di bambini, il brusio della folla è come il rumore indistinto delle onde del mare, intorno si avverte un odore dolciastro di torrone e zucchero filato. Ognuno avanza dietro la statua della Madonna verso la chiesa. Dalle ragazze del coro si leva il canto: “Cara madre della Libera, noi siam figli tuoi”. Ed avverti un senso di pace e di intima gioia come per un ritorno ad antiche sensazioni che credevi forse perdute per sempre.
P.S. Si ringrazia per le notizie fornite Gabriele Scotto di Perta Priore della Congrega dei Turchini.
E’ stata la mia grancìa e la mia chiesa di quando ero piccolo e si andava poi al “circolo” dove il parroco soprannominato
“il toro”ci riuniva e ci faceva giocare.Li mi sono sposato e ho battezzato le mie figlie,ora vivo a Napoli,ma d’estate,quando posso,vado a sentirmi la messa.