Quando la prepotenza diventa legge dello stato

Un interessante articolo di Dino Greco tratto dal quotidiano, Liberazione del 04/03/2010 sul recente disegno di Legge con cui il Senato abolisce ” la giusta causa” nei licenzimenti individuali. A tal proosito cosa ne pnsano i candidati alle elezioni comunali di Procida?

Senza clamore e, malauguratamente, senza efficaci reazioni parlamentari, sta per essere approvato al Senato un disegno di legge (il 1067-b) che, di fatto, liquida la “giusta causa” nei licenziamenti individuali, assestando un colpo mortale a quell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori che rappresenta l’estrema difesa contro i soprusi padronali nei conflitti di lavoro.
Già in passato, ripetutamente, ma quasi in solitudine, abbiamo denunciato l’estrema gravità del progetto attraverso il quale si riducono in polvere, in un colpo solo, i contratti collettivi, le leggi a tutela della parte più debole e la stessa funzione della magistratura. L’architettura giuridica che conduce a questo terrificante esito si regge sul combinato disposto di due articoli, il 32, che interviene sul processo del lavoro e sul ruolo del giudice; e il 33 che introduce l’“arbitrato”. Per comprendere di cosa effettivamente si tratti, occorre rammentare che la famigerata legge 30 aveva previsto la possibilità che, nell’attivare un rapporto di lavoro, le due parti interessate potessero “certificare”, in accordo fra loro e secondo una prassi definita, condizioni in tutto o in parte derogatorie rispetto ai contratti collettivi e alla legislazione vigente. E’ evidente a chiunque come la stipula di simili accordi non possa che essere frutto di un ricatto. Poiché solo il bisogno estremo di lavorare può indurre una persona in possesso delle proprie facoltà intellettive ad accettare clausole jugulatorie, peggiorative delle condizioni normative o retributive della sua prestazione, rinunzie alle quali mai, ragionevolmente, si piegherebbe se non coartata da uno stato di necessità. La norma serve dunque a conferire forza legale, legittimità formale alla legge del più forte, rovesciando un punto fermo del giuslavorismo italiano, in base al quale il soggetto più debole, il lavoratore, non deve essere posto nelle condizioni di soccombere in ragione della propria stessa debolezza. Per questo la legge aveva sin qui previsto che vi fossero “diritti indisponibili”, vale a dire irrinunciabili, persino da parte di coloro che ne sono i beneficiari. Per completare il misfatto e rendere inoperante questo sano e democratico principio, occorreva tuttavia introdurre un altro, decisivo tassello. Occorreva impedire al giudice di intervenire ex post, di fronte ad una contestazione promossa dal lavoratore quando questi, perché più libero di disporre di sé, o perché licentiatosi, avesse inteso ottenere, sia pure tardivamente, giustizia.
Ecco allora la nuova norma che chiude il cerchio, il catenaccio che vanifica ogni intento riparatorio: «Nella qualificazione del contratto di lavoro e nell’interpretazione delle relative clausole, il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti, espresse in sede di certificazione dei contratti di lavoro (…) salvo il caso di erronea qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione».
Prosa ripetitiva e stucchevole, ma dal significato inequivocabile: il giudice non applicherà né la legge né i contratti collettivi, ma si atterrà a ciò che i soggetti in questione hanno privatamente pattuito e, in seguito, marchiato con il timbro di ceralacca. Siamo alla riedizione del contratto individuale e alla sostanziale cancellazione del diritto del lavoro.
A completare questo idilliaco quadretto, infine, la disciplina dell’arbitrato. Dove l’arbitro, nella sua terzietà, deciderà, anche in materia di licenziamenti, «secondo equità», vale a dire in base alla sua discrezionale concezione dell’equità, e non più secondo la legge. Ecco come, in poche ma precise mosse, il divieto di licenziare in assenza di “giusta causa o giustificato motivo”, focus di un epico scontro, vinto dai lavoratori nel 2002, viene aggirato e reso del tutto inapplicabile, almeno quando la forza di interdizione sindacale sia debole o nulla. Proprio come già avviene nella sterminata prateria del precariato, dei lavori saltuari, intermittenti, somministrati, a progetto, a chiamata, che interessano una, o forse ormai due generazioni di persone i cui diritti fondamentali, la cui libertà e la cui dignità sono stati mandati al macero. Nel nome della libertà e della competitività d’impresa. La cui stella, come ognuno può vedere, grazie a questo lavacro, splende radiosa sul cielo d’Italia.

P.S.: La Cgil, ha espresso un giudizio durissimo sul ddl in corso di approvazione, sostenendo, con ottime ragioni, che l’offensiva confindustrial-governativa comporterebbe conseguenze persino peggiori di quelle che furono tentate otto anni orsono, quando tre milioni di persone furono da essa Cgil mobilitate e confluirono a Roma per impedire la manomissione dell’articolo 18.
Sarebbe più che mai necessario che di fronte a questo nuovo, poderoso colpo di ariete si opponesse una mobilitazione di quell’intensità e di quelle proporzioni. A partire dallo sciopero del 12 marzo.

fonte: http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=31369

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