Il ritorno all’ostracismo

Di Michele Romano

Ostracismo: bando che colpiva nell’antica Roma, seguendo ciò che aveva anticipato nell’antica Grecia, il cittadino considerato pericoloso per la sicurezza dello stato e per chi deteneva il potere su tutto ciò che indirizzava il vivere quotidiano della comunità. La parola deriva dal greco óstrakon che significa “coccio, conchiglia, frammento di terracotta” sul quale il nome del concittadino accusato veniva inciso, da coloro che votavano nell’assemblea popolare. Nella storia del nostro Paese le due figure più emblematiche che hanno subito tale straziante pena, in forme diverse, sono due. Il sommo poeta Dante Alighieri, con la condanna all’esilio permanente dalla sua amata Firenze, che esplicita la sua acuta e sofferta amarezza nella nota espressione “come sa di sale il pane altrui”. L’altra figura è quella dell’immenso filosofo nolano Giordano Bruno, bruciato vivo sul rogo dalla crudele e disumana “Santa Inquisizione” con l’assenso dei vertici ecclesiali del tempo perché ha osato uscire fuori dalle loro norme, considerate eterne, immutabili, inconfutabili e cadere nel peccato mortale dell’eresia. Oggi si può ribattere che sono eventi ben strutturati nell’affollato archivio della memoria storica per cui diventa inattuale mettere in campo la convinzione che tale usanza circoli dentro la nostra società. Giusta obiezione. Ma se si entra nel vivo e profondo delle modalità del vivere attuale si scoprono ben rilevanti sorprese. E qui come parametro di misurazione prendiamo come punto di riferimento ciò che ci tormenta di più, la pandemia del coronavirus con le sue imprevedibili varianti. Certamente non sono più le istituzioni dello Stato o della Chiesa a promuovere i diversi aspetti dell’ostracismo ma, come la variabile omicron, c’è un filo sottile, spesso indistinto, che lo propaga attraverso i nuclei familiari, le comunità, la sanità, i social media, l’informazione, la comunicazione e pezzi della magistratura e della politica. Così assistiamo a mariti che condannano a morte le proprie mogli, colpevoli soltanto di essere colpite da Alzheimer, e al delirio di tante tribù, nelle quali si sono frantumate le comunità, concentrate alla caccia degli untori presunti che ritengono pericolosi per il crollo delle mura della loro falsa sicurezza. Un sistema di informazione e comunicazione che si sta strutturando sempre di più sul perfido metodo “giustizialista” tendente all’annientamento psico-fisico di coloro considerati, aprioristicamente, elementi ostili essendo figli del male assoluto alla loro visione manichea del concetto di civiltà, con conseguenze terrificanti su soggetti più fragili, colpiti dalla loro scure. In tal senso, mentre scriviamo, siamo lacerati da una notizia di una notizia del suicidio di un politico piemontese, schiacciato dal dolore di una sentenza ingiusta e vessatoria, che lui, colloquiando con la propria coscienza disperata, ha ritenuto di aver subito. Potremmo continuare con altre e varie testimonianze di particelle impazzite che stanno lì a dimostrare come è viva e vegeta la fenomenologia del divisivo pregiudizio dell’esclusione, espulsione, negazione di chi è indegno, geneticamente estraneo e nemico della comunità del bene con tragica presunzione inventate da sette che hanno inquinato, nel profondo, la nostra società. Si può uscire da tale trappola mortifera in cui si è cacciata l’umanità? Da credenti della speranza propendiamo per il sì, accompagnati dalla ponderata consapevolezza che il cammino continuerà ad essere impervio e lungo. Ciò ce lo fa ricordare il geniale filosofo Pietro Abelardo rivisitando il suo testo “Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano” in cui il filo conduttore del dialogo è un sogno di pace che nel silenzio della notte appare in una visione a cui gli antichi affidavano un decisivo senso di verità. Nei proverbi sapienziali troviamo il detto: Il sapiente che ascolta diventerà più sapiente, l’uomo intelligente che comprende prenderà la guida. Con questa premessa bisogna costruire l’itinerario che seppellisce i dirompenti cattivi pensieri come l’odio, la violenza, l’ostracismo e altri vizi che rischiano di spingere all’autodistruzione. I mattoni da mettere in campo, inizialmente, sono il rispetto, per la parte della giustizia, per cui si mostra la giusta considerazione per tutti, senza alcuna feroce discriminazione; la generosità che ci rende pronti ad offrire l’aiuto dovuto alla necessità degli altri; la grandezza d’animo, che costituisce la parte della fortezza, che si manifesta nel momento in cui ci si trova davanti una ragionevole causa, pronti ad affrontare con slancio vitale tutte le enormi difficoltà. Per rendere concreta tale fruttifera prospettiva di un futuro percorso esistenziale, degno di essere vissuto in pace, bisogna stabilire un tempo pedagogico che delinei un punto di partenza e uno di arrivo. E qui è decisiva e fondamentale l’essenza formativa della scuola.

Postilla finale

Per la nostra amata polis micaelica si presenta un’occasione esaltante e irripetibile. Quella di rendere indelebile e imperitura la nobile funzione di capitale italiana della cultura 2022 per mettere in moto le lancette del tempo pedagogico universale che conduce alla realizzazione del sogno della pace, unica possibilità per governare bene il futuro del mondo. D’altra parte noi cittadini acquatici, essendo figli prediletti dell’infinito, abbiamo le credenziali giuste per promuovere tale sublime compito.

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