La settimana delle “Quirinarie”, che ha condotto alla rielezione di Sergio Mattarella, ha messo a nudo il precario e fragile stato di salute in cui versa la democrazia della nostra Repubblica. Lo stesso presidente davanti ai parlamentari, intensamente plaudenti, simile alla folla che accolse, trionfante, Gesù alle porte di Gerusalemme la domenica delle palme ha evidenziato, con toni pacati e sobri, la deflagrazione di elementi fondanti su cui si regge uno Stato civile e responsabile. Come la politica, la magistratura, la scuola, l’informazione, la comunicazione. Ci troviamo davanti ad una realtà socio-politica che ha, spaventosamente, perso la bussola che guida la navigazione verso il porto sicuro delle idee, dei valori, degli indirizzi, delle linee guida, delle competenze che offrono linfa vitale alla funzione centrale di organizzare la costruzione del bene comune. Così, tapinamente, che fa il ceto politico? Si nasconde dietro l’agenda del presidente che non è altro un forte auspicio rivolto a loro do rimettersi in carreggiata con i cittadini per affrontare le enormi e tremende problematiche che tengono il Paese sotto lo scacco di un’angosciante e permanente paura. Anche perché il continuare a porre in sicurezza l’Italia con le figure di Mattarella e Draghi sta per giungere ad un imminente conclusione. Così vale per la magistratura che si sta trasformando da luogo dove si applica la giustizia, nell’esemplare imparzialità di uno stato di diritto, ad un sito dove transitano feroci inquisitori che si accaniscono con furore criminoso contro coloro che ritengono acerrimi nemici. Ciò, accompagnato dell’eclisse della nobile ed etica responsabilità della narrazione, concreta e viva, del giornalismo. Ormai ridotto, sia nell’informazione della carta stampata che nella comunicazione televisiva e informatica, a torbidi e velenosi bollettini giudiziari per distruggere nemici costruiti e inventati o a irridenti pagliacciate che hanno la durata di una maratona, per raccontare e rendere visibili eventi che dovrebbero essere veicolati con alto spessore e qualità valoriale. Poi, che dire della scuola se non rimanere annichiliti davanti ad uno striscione di una manifestazione studentesca, accanto a sacrosante e giuste rivendicazioni nel momento terribile che vivono le nuove generazione, sul quale c’era scritto “L’esame è un aborto”. Abbiamo chiesto a cosa fosse indirizzato il messaggio ottenendo una risposta secca e perentoria che indicava come soggetto della frase il ripristino delle prove scritte nella maturità, con la motivazione di non essere adeguatamente preparati. E qui su di noi è sceso un velo di preoccupazione e di tristezza per essersi presentata la visione del baratro in cui sta cadendo l’istituzione per eccellenza che orienta il percorso formativo, che offre forma e sostanza a ciascuno di noi di affrontare, con dignità ed onore, la costruzione, con le competenze acquisite anche attraverso il duro e creativo esercizio della scrittura, di un agire che contribuisce alla realizzazione dei contenuti su cui si basano sia le relazioni umane che la capacità di governare lo Stato e le polis. Detto ciò ci siamo posti un interrogativo: come uscire da tale deprimente e pericolosa situazione per le sorti umane? Ad illuminarci sulla via d’uscita ci ha spinto Michel de Montaigne con la sua “Scienza del garbo” intesa come grazia, bellezza, conciliatrice dei primi passi della socievolezza e della familiarità. Per lui tale scienza diventa di vitale importanza davanti al decadimento di tutto quello che mantiene in piedi il funzionamento della struttura sociale. In particolare, il crollo della tolleranza, del rispetto reciproco che consente di vivere, in una società pluralista e complessa, in una dimensione costruttiva e in pace. La nostra epoca, ormai, è impregnata di tanta ipocrisia moralistica, una delle peggiori espressioni di scortesia che riduce il senso sociale ad un atteggiamento difensivo. Spiana la strada ad alzare barricate intorno a concetti di identità nazionale, etnica, religiosa. Certamente, nella condizione umana, il conflitto è endemico ma vale la pena spendere il buon senso dapprima come strumento per gestirlo e poi come motore delle nostre migliori speranze di sperimentare e consolidare il delicato equilibrio, da rinegoziare sempre, dal quale dipende l’esistenza stessa della convivenza umana. Ecco, l’auspicio che la scienza del garbo diventi l’asse fondato di risorgimento scolastico, politico culturale, dal quale emergono tanti talenti capaci di guidare il Paese verso un avvenire migliore.
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