Riceviamo da Basilio Luoni e pubblichiamo.
LIBERI SUBITO 7 settembre 2011 Manifestazione a Roma
La manifestazione è stata molto partecipata, vivace e creativa e questa è una mia libera ricostruzione dell’evento, senza pretese di oggettività cronachistica.
Nei trecentocinquanta, ancora rimbambiti dal sonno, che alle quattro e mezzo hanno lasciato l’isola era rappresentata tutta la comunità isolana. C’erano vecchietti, come me, che strascicavano le ossa stanche incagliandosi nella predella dell’imbarco tra gli improperi di casalinghe, professoresse, artiste creative, signore entusiaste, che spingevano e fremevano vogliose di menare le mani, e c’erano ragazzi e ragazze, il meglio della gioventù procidana, detto senza offesa per i coetanei a quell’ora ancora ignavi e dormienti angioletti.
E c’erano naturalmente i componenti del coordinamento tra i quali spiccava, energica e potente, una bionda Giunone, che pareva pronta a sollevare l’aliscafo con un dito per scagliarlo fino a Roma, bypassando mare ed autostrada, fino a farlo atterrare direttamente a Montecitorio sulle cape bacate dei deputati.
L’aliscafo lasciava svelto ed impaziente l’isola, mentre la forza piatta del mare calmo favoriva una conviviale discussione. Primeggiavano i consigli di moderazione del Sindaco ad una gioventù estremista, che attenta l’ascoltava russando serena. Un saggio Capitano, provato lupo di mare, mi bisbigliava scettici giudizi sulla scarsa propensione dei Procidani ad agire come comunità solidale. E questo Aliscafo chi lo riempie? Oh questi, obiettava lui sicuro, non sono carciofi procidani. Io però m’addormentavo contemplando slanciate e brune gambegazzella della cui procidanità non dubitavo.
Ma eccoci sopra i pullman che sfidano la città silenziosa e Carmen, la nostra capa, una ragazza dagli occhi vivaci con lampi da strambo folletto, effettua rigorosa registrazione dei viaggianti. Svelta ed efficiente pizzica con brusca dolcezza i dormienti cavandone note d’identità smozzicate, sconosciute ed aliene, mentre s’allontana da noi la città lucente e l’implacabile corsa nel sogno mattutino risveglia panze dolenti ed affamate.
Per fortuna ci accoglie, sollecita e benigna, l’area ospitale Macchia dell’Est e la procidanità, accompagnata da quelli di Torre del Greco e di Piano di Sorrento che a noi si sono congiunti arpionandoci sull’autostrada, riversa la sua massa imponente a soddisfare legittime voglie di sfoglie e caffè. Sotto quel feroce impatto le mura del Rifugio Stradale sono per cedere privando per sempre gli automobilisti presenti e futuri dell’ambito ristoro, ma prima che accada il disgraziato evento afferro un foglio della libera stampa, ben celata nei pressi della toilette e da esso protetto mi precipito all’esterno.
Prima della ripartenza Carmen fa un nuovo appello. La sua voce aguzza scardina le pareti del pullman, i timpani e le barriere dell’autogrill e dai remoti colli anche i lupi ululanti manifestano la loro impaziente presenza.
Eccoci nella periferia della città che si autoproclama eterna, senza che dai prati circostanti e dalle macchie ondulate emergano le solite pecore brucanti tra sfinite rovine ed inspiegabilmente finiamo alla deriva entro una morta corsia chiusa, da entrambi i lati, da macchine lampeggianti pulotti saccenti. Si prolunga, più eterna della città che attende la nostra conquista, l’attesa durante la quale discussioni serrate e confuse ipotizzano l’agguato e il nostro dirottamento verso qualche lurido suburbio ammazzaproteste.
Così, giovani ribaldi e vecchietti rancorosi, sono per scendere pronti a scotoiare fino a farle volare, sopra il cielo di Roma, le ostili volanti, ma fortuna che Carmen si rivela capa rigorosa e suadente e con un guizzo imperiale degli occhi ci trattiene il giusto, quanto basta che poi ripartiamo e finalmente nostra è la città, nostri i palazzi squillanti, le vie larghe e rumorose, nostro il cielo di Roma, anche se più tristo e meno brillante di quello di Procida.
Eccoci qua tutti quanti insieme, gli striscioni dispiegati, i cartelli issati, scalpitanti e decisi, pronti all’occupazione del Regno d’Ignavia. Ci stringono in uno stretto budello, detto dei Santi Apostoli, quattro poveri cristi mandati a fermarci erigendo un fortino di fragili transenne. E il loro capetto, un frugoletto patetico armato di radiolona esibita come fosse lo scettro del comando, c’intima di passare non più di cinquanta per volta, neanche fossimo un esercito di vinti da sottoporre alle forche caudine, noi che siamo più di mille, quasi duemila per essere esatti ed anche ben armati di buone ragioni.
La prima delle quali l’afferma la pugnace Marina, ” Non siam bombarole,” grida indignata, ” ma mamme di figli prigionieri ” per la verità io mi sento più nonno che mamma, ma tant’è quelli s’impuntano e gonfiano i petti vigorosi fuori dalle loro custodie, ma ci vuol altro per impressionare la formidabile Giunone e il magniloquento Giaquinto, capi delle nostre schiere ribelli. Levato il braccio, impugnano il fischietto e l’attimo successivo sibili acutissimi ci lanciano in avanti con balzi da levrieri. Quasi seduti su cartelli e striscioni, scavalchiamo i pulotti, che ci contemplano intotoliti, le bocche spalancate, come se fossero comparse nel cielo di Roma madonne pellegrine, o diavoletti cinesi, ancora non lo sanno che qualcosa di ben più pericoloso s’è riversato dal mare sul continente: le Janare di Procida.
Entriamo correndo nei vichi di Roma con la foga furiosa dei nostri stendardi. “Liberi.” Gridiamo. “Liberi Subito!” Sbattiamo sulle facce degli esterrefatti passanti la nostra indignazione negando loro il diritto d’ignorare la prigionia dei nostri fratelli.
“Liberi! Liberi! ” Continuiamo a ritmare, arrestandoci infine al limite della piazza che separa il Palazzo che dovrebbe simboleggiare Libertà.
Ora sono più di quattro, ma non molti di più, i forzati dell’ordine che si frappongono tra noi e quel Palazzo. Ma rispettosi cittadini ligi alle regole non vogliamo sfasciare il finto ordine geometrico che si proietta da quelle mura, non vogliamo, almeno non ancora, occupare quello spazio desolatamente vuoto, che nega ciò che proclama di affermare.
Là in mezzo, però, se non i nostri corpi, vogliamo piantare i nostri simboli, gli stendardi di quei Comuni i cui cittadini non sono considerati degni di cittadinanza.
” Non è possibile. ” Dice un cortese poliziotto.
” Perché non è possibile? ”
” Ordine del funzionario.”
” E chi è questo funzionario? Vorremmo parlarci.”
” Non è possibile. ”
” Perché no.”
” Ordine del funzionario.”
” C’è Assad. Guardate.”
Giosuè indica un tipo nei pressi dell’obelisco, secco e teschiato dalla camicia celestina che pare la copia sputata del dittatore siriano.
” Forse è lui il funzionario.” Freme indignato il bianco nei folti baffi di Giosuè. ” Sarà fuggito dalla Siria e unto dall’unto del signore signoreggia ora da queste parti.”
” E’ lui. ” ne è sicura la veggente Natalia.
” Basta! Fate passare gli stendardi, o succede un sortilegio.”
L’ultimatum proviene da Dora e qui son in arrivo dolori perché già ruotano i suoi occhi scarmigli e una lingua di fuoco s’attorciglia all’obelisco e l’accende accecando i poveri tutori del nulla. Uno di loro leva la mano, non si sa se minacciosa, ma Sofia dalle grandi zinne parlanti gliela riempie con una testa mozzata. Sviene il tapino lì sul selciato con grande rumore di armatura divelta, mentre arretrano terrorizzati i suoi compagni.
E ne hanno ben donde perché ora avanzano le quattro generalesse, i capelli rossi di fiamme e neri contorti serpenti tra loro intrecciati ed in pugno, come spade, gli stendardi dei Comuni. Lalla, Antonella, Annamaria, Marina, nessuna Giovanna d’Arco le può emulare, nessun esercito potrebbe fermarle, un turbine le accompagna che avvolge la piazza e la rovescia di sotto, murando l’obelisco nella rocca di Pizzaco.
La riconosco dall’ocrata roccia spaccata da nere trasversali ferite profonde e dal mare di Procida che là sotto, cristallino e beato, accarezzandola ne gode. Il palazzo, le fondamenta divelte vi galleggia sopra, inclinato su di un fianco, come una nave in avaria in procinto di naufragare, mentre al di là delle sue finestre facce distorte e terrorizzate implorano aiuto.
Alcuni, svelti come gatti, si rifugiano sul tetto, aggrappandosi alle statue che pencolano vogliose di tuffo in quel bellissimo, insperato, mare e tra loro riconoscibilissimi ci sono i componenti tutta la banda dell’Innominabile. Quest’ultimo aggrappato alle spalle d’una faccia da lunapiena semprecontenta spalanca e rinchiude la bocca, senza che ne esca alcun suono percettibile.
” Basta barzellette. ” Sibilano le Janare puntando all’unisono gli stendardi verso l’Innominabile. Un vento di gelida tramontana investe il palazzo che ondeggia perigliosamente, mentre un guizzo lucente sferza l’aria. L’attimo successivo la vivida coda di un grosso pesce sporge dall’innominabile bocca dibattendosi furiosa.
” Masnada di ciarlatani incapaci, schiera banditesca di saracini in perenne fregola truffaldina, ” scandiscono le generalesse Janare, rivolte ora al Palazzo ” o v’impegnate fino a schiattare per liberare i cittadini d’Italia delle nostre Comunità e tutti i loro compagni e trovate il modo di pagare i loro riscatti, o caveremo le vostre budella e le intrecceremo a questo obelisco ad ornamento e testimonianza della vostra impotente supponenza. E guai a voi se provate a scimmiottare sceneggiate da sfracelli guerreschi mettendo le loro vite in pericolo. Aiutatelo, piuttosto, quel paese affamato. Chiaro? Se ci costringerete a tornare non saranno soltanto le vostre ossa a strillare il dispiacere.”
Ciò detto s’inabissano in mare le terribili Janare, trascinando con sé la rocca di Pizzaco, si rinchiude la piazza ed ogni cosa torna al suo posto. Svetta l’imponente obelisco davanti al palazzo, circoscritto nella solita, solida, metafisica aurea.
” Ci sei anche tu, vecchia cariatide.” La voce di Lalla, alle mie spalle, mi risveglia, ironica e punzecchiante. Sua figlia ed Antonella le sono accanto ed innalzano decise i cartelli ” Liberi Subito”. Mi guardo attorno leggermente stordito, per quanto i partecipanti siano molto stanchi la manifestazione sta proseguendo con generosità coinvolgente. Di fronte ai poliziotti Annamaria e sua figlia lottano per sorreggere il colossale striscione, mentre il sindacalista dei marittimi impenna il megafono e lancia strali e mordaci invettive replicate da cori veementi. Marina, materna, rifocilla le truppe con colossali porzioni di pasta, al contrario di Dora che, in piedi, sonnecchia soave. Però, per quanto la cerchi in mezzo alla folla, non mi riesce di trovare Sofia e le sue grandi zinne parlanti.
Ma una stranezza risalta a cui nessuno sembra far caso: gli stendardi di Procida, Trieste, Gaeta, Torre del Greco e Piano di Sorrento, svettano diritti e trionfali, piantati sopra l’obelisco.
La sera Procida riappare, sogno di speranza. In quel sogno si ricongiungeranno i fratelli e la collera ritornerà nella notte. Pronta però a riemergere più acuminata delle pietre nelle quali s’è acquattata.
” Non dobbiamo mollare. ” Mormora Marina. E’ sul molo e la sua figura sfuggente si confonde con l’ombra acquatica del pontile.
No, non dobbiamo mollare, e poi con noi combattono anche le Janare. Liberi tutti e subito, li vogliamo.