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Editoriale di
Steve Macek docente e autore di «Urban nightmare» [Minnesota university press]
Panico morale
Ormai possiamo definire con una certa precisione il meccanismo utilizzato dai media per demonizzare alcuni gruppi sociali e alcune sottoculture. I principali network televisivi commerciali degli Stati uniti, ad esempio, hanno raccontato la realtà delle città americane. In centinaia di storie sui quartieri metropolitani, sul crimine urbano, sulla povertà e sui comportamenti sociali, i network televisivi inquadrano la città come un luogo spaventoso di violenza, disordine, degrado morale e illegalità. Tentando di interpretare questo caos immaginato, si sono rivolti costantemente a commentatori di destra e conservatori, a teorie che scaricano la colpa sulle vittime e che se la prendono, per il crimine e la povertà, con i poveri stessi. Ciò a sua volta, ha contributo ad appiccare il «panico morale», una spirale crescente di paura, legittimando la repressione poliziesca contro la popolazione delle periferie, soprattutto contro i giovani lavoratori neri e latinoamericani, che erano visti come una minaccia all’America «normale». Lo spettacolo della metropoli-minaccia è servito a distrarre la gente da cosa stava accadendo veramente nelle nostre aree urbane dopo anni di politiche neoliberiste: crescenti disuguaglianze, forte aumento della disoccupazione, incremento costante dei senza tetto, deindustrializzazione, rafforzamento delle divisioni tra quartieri del ceto medio e zone povere, rafforzamento della segregazione razziale. Il clima di paura che circondato le città agevola l’opera di chi vuole tagliare i fondi del welfare, delle case popolari e degli altri programmi sociali. Se l’opinione pubblica vede i più poveri come una massa spaventosa di devianti, non protesta quando si tagliano le voci di bilancio destinate ai loro bisogni.