accoglienza e ospitalita
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L’accoglienza al tempo di “giuso”

Di Carmelina Carabellese

Premessa. Viviamo purtroppo in un tempo in cui alla parola “accoglienza” si preferisce spesso la parola “invasione”. Anche per questo motivo ho pensato di descrivere una forma di accoglienza, piuttosto diffusa nel passato, nobile, silenziosa e sincera. Dalla mia tesi di laurea sull’abbandono dei minori, dal Medioevo ad oggi.

La zona di Napoli dove si trovano il palazzo delle Poste, gli Uffici finanziari e la Questura si presenta come ora la conosciamo solo a partire dallo “sventramento” voluto a partire dagli anni ’30 per realizzare un centro città adeguato alla magnificenza delle grandi città che il fascismo perseguiva.

Prima di allora ripeteva il groviglio di viuzze, piazzette e vicoletti che la toponomastica della città aveva accumulato durante diverse epoche e dominazioni.

Tra di essi il vicolo Scaricatoio ai Guantai da pochi anni era stato rinominato a Giuseppe di Cesare: targa storpiata del cognome De Cesare, napoletano pre-unità che si voleva onorare. Si trovava all’incirca sotto l’attuale Questura.

Al numero 5 di questo vico, nel primo pomeriggio di martedì 17 maggio 1898 la levatrice Anna Liguori aiutò l’ennesimo parto dei suoi 60 anni: un maschietto, e doveva essere particolarmente bello.

Purtroppo non era desiderato. Possiamo solo fare ipotesi per ricostruire il perché.

La madre si chiamava Palma (o Palmira o Palmina) De Prospero ed aveva poco più di 31 anni, essendo nata il 14 aprile 1867.

Era coniugata dall’età di 15 anni con il ventunenne Nuvolato Domenico: entrambi incapaci di firmare il loro atto di matrimonio datato 11.07.1882 perché analfabeti.

Palma non aveva figli dichiarati: nessun Nuvolato agli atti del Comune di Napoli tra il 1882 e il 1898, nessun De Prospero. Se ce n’erano stati erano stati ceduti o esposti. O altro. Neanche ce ne sarebbero stati in seguito.

Forse il Nuvolato era morto nel frattempo, forse era vivo ma non aveva i mezzi per allevare un figlio. Forse era figlio di altri. Fatto è che il bambino era già destinato all’abbandono.

Non per strada, né furtivamente, come si faceva un tempo; ma con la consegna alla ex ruota dell’Annunziata, quindi storicamente fuori dalla pittoresca consueta cerimonia di “nuova nascita” che improvvisavano i passanti nel momento in cui il neonato veniva fatto cadere, in epoche precedenti.

Nelle modalità dell’abbandono fu seguita invece una procedura – probabilmente suggerita dall’esperta levatrice- che testimonia tutto l’affetto della giovane madre per il figlio e la sua lacerazione nel lasciarlo.

Il mattino dopo la levatrice denunciò al Comune la nascita di Vittorio Visobello. Il cognome prima di allora era sconosciuto alle anagrafi italiane e lo sarebbe stato in seguito: il piccolo doveva essere veramente bello!

Un ostetrico le compilò inoltre un certificato di sana e robusta costituzione della madre, su carta intestata e in bella grafia.

Subito dopo il neonato fu consegnato all’Annunziata, insieme ai documenti e a “cenci”: tutto ciò è stato conservato per decenni e lo è tuttora.

Nessun oggetto di valore, nessuna moneta spezzata, il che fa presumere la estrema povertà della madre.

A pegno della sua maternità l’identità stabilita da lei stessa: non sarebbe stato uno dei mille esposito di Napoli, ma l’unico Visobello, che lei avrebbe potuto recuperare in tempi migliori.

Anche il certificato aveva un suo scopo. Il bambino nasceva bene di salute: questo poteva essere un incentivo a trattarlo bene.

Infatti la sopravvivenza dei figli della Madonna era molto difficile, sottoposti com’erano ad una mortalità precoce molto elevata: gli altri tre esposti della pagina di Vittorio all’Annunziata risultano deceduti presto.

Un altro dramma familiare era vissuto in quei giorni in mezzo al golfo.

Oltre il tratto di mare che per quei tempi significava dalla Terra alla Luna, che separava il porto di Procida da quello di Napoli. Oltre il faticoso cammino a piedi o a dorso d’asino che separava la città di Procida dalla sua terra di “giuso”. Oltre la distanza secolare tra le due civiltà.

Una coppia di “iusini”, lei Vicidomini, lui Imputato, perdeva un figlio appena nato.

Non aveva importanza, in quella civiltà, quanti figli già avessero (diversi). Era importante piuttosto non mandare indietro il dono del latte della maternità, fonte di possibile vita per altri meno fortunati.

Fu così che la coppia intraprese il doppio cammino nel deserto e il 6 giugno Visobello Vittorio entrò nella famiglia Imputato.

Non fu una vera adozione, fu una specie di affidamento, fu più di una adozione. Non potevano saperlo: era un “alunno” dei tempi moderni.

Zia Rosa (Imputato) fu vicina a Vittorio (Visobello) per una vita.

Avrebbero potuto sposarsi, per come erano affiatati: bastava guardarli per come se la intendevano, si parlavano o si beccavano.

I due rifiutavano scandalizzati: erano fratelli e sorella!

All’età giusta Vittorio sposò invece una giovane di Ischia: allora, per uno di “giuso”, era più naturale andare a Ischia in barca che a Procida città a piedi. Questa gli regalò un primogenito maschio e sette femmine, tutte da lui amate e valorizzate. La più piccola, mia madre.

Per sua madre, di cui non ha mai saputo neanche il nome, ho sentito nonno Vittorio esprimere sempre parole d’amore:” povera donna, chissà in quali guai si trovava…”, in uno con un malinconico rammarico:” vorrei conoscerla solo perché se le serve qualcosa, io gliela posso dare, gliela voglio dare…”.

Non se ne è accorto; ma molto le ha dato, attraverso le figlie e la moltitudine di nipoti. Quasi tutte femmine.

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