Di Nicola Silenti da Destra.it
Anni di incontri ufficiali, convegni grandiosi e dibattiti affollatissimi su portualità ed economia del mare per tornare ogni volta allo stesso, identico angoscioso quesito di partenza: ma davvero importa a qualcuno del pianeta mare? Fiumi di studi dettagliati e resoconti minuziosi conditi dei più autorevoli pareri e delle più prestigiose analisi, oceani di riflessioni e stime comparate e riscontrate fino allo spasimo, montagne di statistiche di un rigore formidabile aggiornate quasi a cadenza giornaliera, studi di settore degni della migliore umanistica e un diluvio ulteriore di proposte di riforma, suggerimenti autonomi e indipendenti per approdare al solito, immutato e immutabile risultato: restare con un pugno di mosche in mano.
Chiunque navighi o abbia navigato per le perigliose acque del comparto marittimo italiano conosce a menadito lo strano destino di questo mondo, da tutti stimato e conosciuto come una delle realtà più proficue e dinamiche dell’economia e dell’industria italiana e al contempo uno dei settori più bistrattati, sottovalutati se non addirittura ignorati dalla politica. Un settore capace di segnare numeri da capogiro pur nell’asfittico stallo dell’economia italiana, un settore in grado di macinare record persino nei momenti più bui della crisi economica globale eppure lontano dal clamore delle cronache e dalle urgenze dell’agenda politica nazionale, scansato da una miriade di questioni secondarie che ben poco avrebbero a che vedere con una realtà indiscussa dell’eccellenza del made in Italy.
Una realtà, quella del mare, che a dispetto degli scettici e dei distratti di ogni colore è la patria indiscussa dello scambio delle merci del pianeta e che in Italia vale da solo 120 miliardi di euro, ossia un terzo di tutto l’export nazionale, con possibilità di incremento smisurate soprattutto adesso che il canale di Suez ha raddoppiato le possibilità di transito per le navi in rotta tra Mediterraneo e Asia. Una vera manna dal cielo per l’Italia, terminale naturale e strategico della nuova via della Seta del gigante cinese, non a caso da tempo posizionato con uffici, capitali e uomini nei due porti cruciali del Mare nostrum: Genova e Trieste.
Sta tutto qui il divario inaccettabile e il vuoto incolmabile che frappone distanze siderali tra chi persevera nella solita retorica di un finto interesse che è in realtà una marchiana incapacità di comprendere i mille volti e le mille forme di un universo economico e sociale così importante, lasciando i suoi tanti protagonisti privi di una fattiva e concreta disponibilità a un supporto che non sia soltanto di facciata. Una malattia, quella della politica di ogni colore e di tante, troppe epoche, che sembra ripetersi immutabile nel tempo uguale a sé stessa, incurante della portata strategica di un universo che da lavoro a circa un milione di uomini e donne, il 3,5 per cento di tutta la forza lavoro italiana, per un giro d’affari stimato di oltre 45 miliardi di euro, circa il tre per cento del totale nazionale.
Numeri che sono la prova inconfutabile della portata straordinaria di un comparto fondamentale dell’economia italiana, erede di una tradizione che è legata a doppio filo all’anima stessa della nazione. Una voce spesso fraintesa e troppo spesso minimizzata da una politica che forse, in fin dei conti, più che una miope malafede paga una crassa, ottusa ignoranza del pianeta mare e della sua importanza. Un’ignoranza che pesa come un macigno sulle tante opportunità di sviluppo di un settore frenato nella sua espansione come nessuno, vittima innocente di una politica che non può, non sa e non vuole restituire all’Italia la sua identità di piattaforma del mare.