terra murata salita
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Procida: Via del Castello

terra murata salitadi Giacomo Retaggio

Lasciata Santa Margherita  torni sulla via principale, la via del Castello, quella costruita a fine ‘500 dal cardinale D’avalos, e costeggiando lo spaccio, le cucine e la caserma degli agenti di custodia, in totale degrado, inizi la ripida discesa verso il basso. Questa  strada basolata ha una forte pendenza e percorrerla in salita comporta una notevole fatica. E ti viene in mente la mattina del Venerdì Santo, quando alle prime luci o addirittura durante la notte, salgono verso la chiesa i ragazzi che trasportano a braccia i pesanti “misteri”. Hanno sul volto i segni della fatica. Ma è come se non la sentissero, tanta è in essi la gioia del partecipare a questa processione antica di oltre quattrocento anni e radicata fortemente nell’animo dei Procidani. La fatica  assume  in quelle ore un inconscio valore catartico. Il loro sguardo velato dallo sforzo  non si sofferma che fugacemente e senza alcuna contezza sullo splendido panorama che si stende ai lati della strada e giù, verso il basso, abbracciando tutta l’isola. Ma, forse, anche perché i Procidani sono talmente assuefatti a questa esplosione di colori e di forme del loro territorio da non farci più caso. Più tardi, verso le sei del mattino, dopo la fine della veglia di preghiera iniziata alle cinque nella Chiesa Nuova, vale a dire nella Congrega dei Turchini, salirà, sempre portata a spalle, la pesante statua del Cristo Morto che poi verrà trasportata in processione per tutta Procida. E ti rendi conto che questa volta non sono solo giovani a salire dietro il Cristo, ma persone di ogni età, di ogni condizione, uomini, donne, vecchi e bambini. E salgono pregando, come a immedesimarsi nella fatica di Cristo nella sua ascesa al Golgota, con profonda fede come facevano i loro avi nei secoli addietro, in un’atmosfera mistica e di grande commozione resa ancora più suggestiva dai colori della luce del giorno che avanza. Qualcuno nel salire si appende al corrimano sul muro laterale della strada per alleviare la fatica come nelle giornate in cui il forte vento di scirocco che viene dal mare rischia di portarti via. E ricordi che fino alla prima metà del secolo scorso  il giovedì Santo la via era percorsa dal corteo degli Apostoli: dodici uomini incappucciati,  col sacco bianco e con una grossa croce nera sulle spalle, distanziati l’uno dall’altro di una decina di metri, avanzavano in silenzio e facevano il giro delle chiese dell’isola. Oggi per insondabili e discutibili alchimie curial – pretesche anche gli “Apostoli” nel loro cammino penitenziale hanno abbandonato questa strada per altri percorsi. Peccato, però! E’ venuta meno una tradizione sentita e condivisa. E rivedi salire, sempre durante la Settimana Santa, il corteo delle “zeddose”, giovani fanciulle con la testa e le spalle coperte da splendidi veli ricamati in segno di penitenza, che andavano a pregare nella chiesa madre. Il termine “zeddose” è la procidanizzazione  della parola “intonse”, vale a dire si trattava di ragazze giovani non ancora delibate. Facevano a gara a chi indossava il velo più bello e riccamente lavorato che veniva tramandato di madre in figlia e costituiva il pezzo pregiato del corredo nuziale. Cose d’altri tempi! Dirai tu. Ma è un altro pezzo di Procida che non c’è più. Scendi un poco e ti trovi davanti al palazzo della Direzione del Carcere. Ancora e sempre carcere. Una massiccia e pur elegante costruzione borbonica dall’aspetto severo posta in posizione dominante, di faccia al mare, con sulla porta la dicitura: “Direzione del penitenziario”. Alcune lettere della scritta sono cadute e l’intonaco viene giù  a pezzi. Dai piedi della costruzione si parte la via incassata nella roccia che serviva alle milizie del cardinale D’Avalos come scorciatoia verso il palazzo signorile. La grande porta di ferro è arrugginita e di difficile apertura e tu ricordi che per oltre centocinquant’anni, dopo essere saliti per questa ripida strada, sono passate attraverso di essa migliaia di persone: carcerati incatenati con la sacca al collo e le manette ai polsi, guardie, magistrati, avvocati, preti, civili che lavoravano nell’istituto, parenti dei detenuti. Tutta un’umanità che gravitava intorno a questo luogo di pena e percorreva questa strada in salita, quasi sempre a piedi, spesso sotto il sole cocente o la pioggia battente  o investita dal vento di scirocco che ostacolava e rendeva difficoltoso il cammino. E ricordi che per questa strada e attraverso questa porta sono transitati personaggi eccellenti. Prima ancora dell’unità d’Italia i patrioti oppositori dei Borboni, durante il ventennio, poi, i soggetti invisi al regime come Romolo Tranquilli,  fratello dello scrittore Ignazio Silone, morto in questo carcere di tubercolosi a soli venticinque anni. Una lapide nel cimitero di Procida ne ricorda le peripezie e la scomparsa. Poi, ancora, dopo la caduta della Repubblica di Salò, nel 1945, i maggiori esponenti della “nomenklatura” del regime: tra gli altri Attilio Teruzzi, morto a Procida e qui sepolto, Iunio Valerio Borghese, Bruno Cassinelli, Acerbo, il generale Rodolfo Graziani, che in questo carcere fu anche operato di appendicite acuta e scrisse il suo libro “Ho difeso la patria”. Il generale salì per questa strada a luci spente per non farlo riconoscere e per la paura di attentati e senza ferri. Poi ancora, in contemporanea a questi, una ventina di giovani repubblichini condannati da un tribunale inglese come “criminali di guerra”. Dopo qualche anno questi furono “dimenticati”: le autorità italiane asserivano che la loro sorte era competenza degli Inglesi, la regina di Inghilterra interpellata in proposito rispose che il loro destino era nelle mani dell’Italia. I giovani detenuti allora presero la decisione di attuare un poderoso sciopero della fame e molti di loro rischiarono la vita. L’episodio servì ad attrarre l’attenzione internazionale su di loro e così nel giro di alcuni mesi furono tutti liberati. Parecchi di essi ( qualcuno è ancora vivente) si accasarono con ragazze procidane. Per alcuni anni, subito dopo la guerra, Procida, il suo carcere e la via del  Castello, furono l’ombelico d’Italia. La storia con i suoi personaggi di spicco ha calpestato i basoli di questa strada. Negli anni cinquanta del secolo scorso si inerpicarono per questa via in salita,  con il loro passo deciso e le facce ermetiche come maschere di pietra, alcuni componenti della banda Giuliano, come, tra gli altri, Nunzio Badalamenti e Frank Mannino, che avevano ancora negli occhi e nelle orecchie i colpi di mitra della strage di Portella delle Ginestre. Continui a percorrere questa via  in discesa, cercando di non scivolare sul pavimento lucido, e ti trovi in piazza dei Martiri, l’antico “spassiggio”, luogo di incomparabile bellezza, arioso terrazzo sul borgo della Corricella e sede di uno dei più efferati eccidi del passato. Ma questa è un’altra storia da raccontare…

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4 commenti

  1. Sarebbe bello ripristinare la processione femminile delle zeddose, un modo di esibire l’antico costume di Procida al di là dello spettacolino estivo, penso che per un occasione del genere le famiglie dell’isola sarebbero disposte ad aprire i preziosi armadi.

  2. E’ una fortuna

    che queste tradizioni,come quelle delle ” zeddose”,non si perpetuano più.La donna,per fortuna,è completamente emancipata,e certe cose.. sarebbero,francamente, ridicole..

    se poi,invece,ci soffermiamo,sull’aspetto folkrostico ed estetico,beh, allora è un’altra cosa…

    • Giacomo Retaggio

      E’ ovvio che si tratterebbe solo di un fatto folkloristico! Nessuno si sogna di tornare indietro e di coartare l’emancipazione femminile. Sarebbe una follia antistorica. D’altra parte se le nostre ragazze continuano ad indossare il vestito di Graziella con gioia non vedo perché non lo dovrebbero fare anche con il velo delle “zeddose”.Quella della Montaldo era una proposta che si può condividere o meno, ma non toglie nulla ala evoluzione delle ragazze procidane.

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