Procida. Commenti al vangelo di domenica 18 settembre 2011

Quanta strada da fare, per ogni credente; per questa nostra stanca e acquietata Chiesa, ricca di folle osannanti e povera di profezia e di testi­monianza!

Un abbraccio e buona settimana! Lina Scotto

Cinquatunesimo appuntamento, con la rubrica dedicata ai commenti al vangelo. Eccovi il commento al vangelo di Mt 20,1-16, di questa domenica 18 settembre 2011, attraverso il video di p. don Lello Ponticelli con relativa  trascrizione da scaricare, e una riflessione di Gianni Manziega.[youtube O0nRves-XIY]

XXV TEMPO ORDINARIO – 18 settembre 2011

SEI INVIDIOSO PERCHE’ IO SONO BUONO?

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM

Mt 20,1-16
[In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:] «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che
se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.
Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

MA GESÙ NON È UN RAGIONIERE

Mt 20,1-16

« Gli ultimi saranno i primi»

Ad un operaio delle fabbriche di Porto Marghera suonerebbe certamente strana ed estranea la logica espressa nella parabola dei vignaioli. Le lotte per il riconoscimento della pari dignità di ogni lavoratore sono sempre attraversate dallo slogan “pari stipendio a pari prestazione” che, indubbiamente, sarebbe semplice appiattimento su rivendicazioni di ordine economico se coerentemente non si accompagnasse alla difesa e all’allargamento dei posti di lavoro, alla pretesa della sicurezza e del risanamento dell’ambiente, al riconoscimento della dignità di tutti i lavoratori, ma senza il quale si rischierebbe – e si continua a rischiare – la discriminazione degli operai in base a criteri del tutto discutibili e per lo più funzionali alle regole del mero profitto aziendale.

Non c’è dubbio: mi sento dalla parte dei vignaioli assunti all’alba. E sicuramente neppure i padroni potrebbero accogliere tranquillamente la parabola di Gesù, se questa indicasse una regola di comportamento nei confronti della manodopera: pagare proporzionalmente di più chi lavora di meno manda in malora il bilancio aziendale.

Il luogo di lavoro è spazio in cui si contrattano e si mantengono, a volte a denti stretti, equilibri di giustizia possibilmente più avanzati. In realtà, nel luogo regolato da rapporti di giustizia, una giustizia conquistata e sempre da conquistare, è fuorviante appellarsi all’amore.

Ma Gesù non è un ragioniere, né un amministratore aziendale: il suo insegnamento si muove su un piano diverso. Cerco di capire.

Lavorare nella vigna significa farsi discepoli di Cristo perché chiamati, non per meriti particolari; farsi lentamente penetrare dalle vitali dinamiche del Regno. Esse, dando senso e pienezza alla vita, aprono gli occhi a cogliere i segni di speranza e della disperazione, che invitano alla responsabilità. Così il peso del “lavoro” è facile da sopportare e leggero il fardello (Mt 11, 30): il prezzo della libertà.

Discepoli perché chiamati, cioè amati, nonostante i nostri egoismi: per vincere il nostro autocentrarci, per riaffermare la centralità del Messia sconfitto e abbandonato, per capire l’incomprensibile amore che si fa servizio e dono usque ad finem.

Essere nella vigna, cioè essere discepoli del Maestro, con l’umiltà che conosce l’incapacità di farsi dono come Lui. Poiché non basta chiamarsi “diacono” o “servo dei servi” per seguire il Nazareno fra gli ultimi della terra: bisogna accettare di essere sempre alle sue spalle mentre si cercano i modi di portare, sulle nostre spalle, i pesi dell’umanità sconfitta, privi di sicurezza, di potere, senza “oro, né argento, né moneta di rame nelle cinture, né bisaccia da viaggio” (Mt 10,8-10). E felici di questa libertà!

Quanta strada da fare, per ogni credente; per questa nostra stanca e acquietata Chiesa, ricca di folle osannanti e povera di profezia e di testimonianza!

In realtà, se ci è permesso di leggere il testo di Matteo con un’ottica che prescinda dalla polemica farisei/esclusi o da quella più sconvolgente tra ebreo cristiani e pagani convertiti (questioni che erano ben presenti nella comunità matteana e centrali nella stessa parabola) non possiamo che rallegrarci della promessa con cui si conclude la parabola: “gli ultimi saranno primi e i primi saranno ultimi”. Siamo, infatti, tutti “ultimi”: per le nostre titubanze a scelte radicali, per la nostra accidia di fronte ai drammi che sconquassano il mondo, per gli accomodamenti che accettiamo o promuoviamo, nella speranza che sia possibile servire due padroni. Come singoli e come comunità. Ultimi ma chiamati, cioè amati nonostante i nostri egoismi: sta a noi la scelta di rispondere di sì, senza l’alibi di non essere stati invitati a lavorare nella vigna.

E così il quadro si capovolge: anche i miei compagni di lavoro accetterebbero la parola incomprensibile divenuta parola di speranza, poiché sono le persone che contano meno a sognare il futuro in un presente spesso vuoto di senso. Ma ci sarà un Maestro capace di trasmetterla?

Gianni Manziega

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