I gioielli di Procida: Terra Murata

terra muratadi Giacomo Retaggio 

Terra Murata, il borgo più antico di Procida, ad osservarlo dal mare, sito sulla parte più alta dell’isola, a strapiombo sull’acqua, sembra voler slittare da un momento all’altro nel blu profondo degli abissi marini. E la mente va a quei monasteri greci abbarbicati sulla roccia che appaiono in precario equilibrio, pur resistendo da oltre mille anni alle intemperie ed all’ingiuria del tempo che scorre.

A vederlo dall’alto appare come il classico borgo medievale con la chiesa al centro e a poca distanza il palazzo del governo a dimostrare la simbiosi tra il potere religioso e quello politico. Tutt’intorno un agglomerato di case senza alcuna soluzione di continuità, quasi a sorreggersi l’un l’altra, ed intervallate da una serie di viuzze a volte larghe meno di un metro per impedire nei secoli scorsi lo sciamare dei pirati barbareschi. Molte di queste abitazioni negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso furono rase al suolo da un piccone falsamente risanatore per far posto ad un vasto spiazzo. E andò perduta così una parte consistente di un patrimonio storico e culturale di inestimabile valore. Come a dire: “Quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini!…” Queste viuzze hanno dei nomi impossibili dal’etimologia incerta e nebulosa che si perde nella notte dei tempi: via Guarracino, via Canalone, via Papere ed altri. Il borgo costituisce il primitivo nucleo abitativo di Procida e fino al ‘600 si chiamava Terra Casata. Fu da tale epoca che, con la costruzione delle mura di difesa contro le invasioni barbaresche da parte del cardinale Innico D’Avalos, feudatario di Ischia e Procida,  la zona assunse la denominazione attuale di Terra Murata.

Risale allo stesso periodo la costruzione del palazzo D’Avalos, un ampio, solido e arioso  complesso adibito a residenza gentilizia della famiglia omonima. La recinzione muraria si rese necessaria per le frequenti e disastrose incursioni barbaresche che flagellavano a quei tempi le isole di Ischia e Procida. La porta che dava l’accesso al borgo, detta di “Mezz’omo” e di cui esiste ancora un mezzo arco, veniva chiusa la sera e si riapriva al mattino per permettere agli abitanti di andare a lavorare “giù” nelle campagne dell’isola. E’ per questo che ancora oggi i contadini nel dialetto procidano vengono chiamati “giusini”, vale a dire “quelli che lavorano giù”.

La vita della primitiva comunità procidana si svolgeva tutta all’interno delle mura, specie di notte. Spesso i “giusini” erano costretti a risalire di corsa e con affanno perché erano comparse delle vele barbaresche all’orizzonte o perché avevano scorto  il fumo delle torri di avvistamento di Ischia o di Gaveta, segno inequivocabile di una prossima incursione piratesca. Quello degli attacchi dei pirati provenienti dal nord – Africa, ed in particolare dalle reggenze barbaresche di Tripoli, Tunisi e Algeri, costituiva in quegli anni, come d’altra parte per tutti i paesi rivieraschi del mediterraneo, un autentico problema per la comunità procidana. Con la loro sequela di ammazzamenti, stupri, ruberie e rapimenti di uomini, donne e bambini, è probabile che abbiano inciso profondamente nello spirito del popolo di Procida rendendolo ritroso, riservato e diffidente verso lo “ straniero” che veniva dal mare. Sintomi che, sia pure in forma estremamente ridotta e larvata, sembrano persistere ancora oggi in alcune frange della popolazione residente. Né giovano a sfatare questa sensazione i recenti rapimenti di marittimi procidani da parte dei pirati somali che gli isolani hanno si vissuto con ansia e trepidazione, ma anche con una sorta di rassegnazione fatalistica: dal ‘500 ai giorni nostri non è cambiato nulla. I pirati colpivano allora, i pirati colpiscono oggi.

Questo discorso, che può sembrare fuorviante, serve ad inquadrare nel suo contesto storico, culturale ed antropologico il borgo di Terra Murata e per estensione Procida. Man mano che, con il trascorrere degli anni, la popolazione cresceva e contemporaneamente iniziava a scemare  il pericolo degli attacchi dei pirati, il borgo andava sempre più stretto agli abitanti che presero ad allargarsi verso il basso dell’isola, a poca distanza, costruendo i Casali della Spianata e del Vascello. Questi agglomerati sono costituiti da una vasta corte centrale semicircolare contornata da una fitta cortina di abitazioni addossate l’un l’altra e molto alte. Le vie di accesso ai casali sono molto strette per ostacolare al massimo l’ingresso degli eventuali corsari barbareschi. La fisionomia del borgo di Terra Murata è rimasta quasi intatta nei secoli: alla sommità si trova l’Abbazia di S. Michele, a pochi metri la residenza di Giovanni da Procida, trasformata negli anni in Conservatorio delle orfane e attualmente sede distaccata della Federico II, poco più giù il palazzo D’Avalos adibito nel 1830 a carcere e rimasto come tale fino al 1988, a qualche centinaio di metri, oltre la Porta Romanica, seconda via di accesso al borgo, sorge la chiesa di Santa Margherita, di recente restaurata, con annesso convento benedettino.

Ciascuna di queste strutture, per la complessità storica, culturale ed architettonica richiede una trattazione separata.

Oggi il borgo di Terra Murata non è più popoloso come lo era quattro -cinquecento anni addietro, anzi gli abitanti sono ridotti a poche centinaia. Eppure questo rione conserva intatto il suo fascino accumulatosi nei secoli. Attraversando, specie di sera, le sue viuzze, vere feritoie nel corpo dei fabbricati ove la luce del sole raramente arriva, si avverte l’odore (o il tanfo) della storia che trasuda dai muri. E la mente corre agli attimi concitati e paurosi delle scorrerie saracene, alla fuga spesso senza esito della gente, al suonare a martello delle campane della vicina chiesa per avvertire del pericolo, alle invocazioni disperate a San Michele.

Alcuni anni fa nacque come d’incanto una sorta di leggenda che in breve fece il giro di tutta Procida: alcune persone da uno dei terrazzi che danno sul mare,  e precisamente da quello adiacente il vecchio carcere, riferirono di sentire dei gemiti lamentosi venire dalla montagna sottostante. La gente corse a frotte: chi diceva di sentire una voce di lamento, chi non sentiva nulla, chi asseriva trattarsi di un  gabbiano ferito, chi del vento tra due fessure. E si cominciò a favoleggiare della presenza del fantasma di un saraceno morto o di quello di una fanciulla uccisa mentre veniva rapita o di un carcerato innocente deceduto che piangeva sulla sua sventura. In breve la leggenda si sgonfiò: era il vento che filtrando tra le pieghe della roccia produceva un suono simile ad un lamento. Questo episodio, però, dimostra l’atmosfera quasi fantastica che si vive nel borgo di Terra Murata, nonostante il tempo sia trascorso abbondante, e fa venire in superficie sensazioni ed avvenimenti che si credevano ormai sepolti. Fu così che a molti dispiacque sapere che il lamento che saliva dalla montagna era dovuto solo al vento. Per essi rappresentò un brusco risveglio ed un rapido ritorno alla realtà. Addio sogni e fantasmi del passato!…

 

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Un commento

  1. giuseppe ambrosino

    Ho avuto il piacere quest’anno e per la prima volta in vita mia, di visitare il castello d’Avalos dall’interno, e la fortuna di aver per guida il medico scrittore Giacomo Retaggio. Le mie conoscenze riguardo allo storico palazzo si limitavano, fino allora, alla sola vista che si coglie dal mare. Una facciata maestosa con numerose finestre ed inferriate, che per me rappresentava il Carcere. Una entità astratta, fino al giorno in cui attraversando in silenzio quei corridoi e quelle stanze, le cui mura ancora trasudavano il “tanfo della Storia”, io non abbia avuto la sensazione di essermi immerso anche nelle storie di chi lo aveva abitato in passato. Storie di dolore e di sofferenze quando questo storico palazzo fungeva da carcere, storie fatte rivivere dal mio cicerone di eccezione,il dottor Retaggio, che in quella “casa di Pena “, ha trascorso un quarto della sua vita, da medico s’intende. . Calpestando la polvere ferma nel tempo,ho avuto quasi l’allucinazione che qualcuno mi seguisse alle spalle. Quello che io avvertivo come una minaccia era il semplice rumore dei miei passi. La stessa sensazione riprovo oggi,scorrendo le righe di alta poesia del dottor Retaggio, che nel mettere a confronto il passato e il presente della Terra Murata, ci fa riflettere facendoci scuotere dal sonno. Ormai è soltanto il vento che soffia tra quelle antiche mura.

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