Oggi 24 marzo è Giornata di preghiera e digiuno per i missionari martiri. Anche quest’anno servirà per fare memoria di quanti hanno dato la vita per la fede. Un giorno non scelto a caso. Infatti in questo giorno di 31 anni fa veniva assassinato, come ci ricorda anche il quotidiano della CEI Avvenire
mons. Oscar Romero arcivescovo salvadoregno e noi lo ricordiamo con questo articolo di Massimo De Giuseppe Oscar Romero: tra silenzio e memoria.
La morte e la testimonianza
Era il 24 marzo del 1980, quando Romero venne freddato da un killer, forse non più senza nome[2], nella cappella di un ospedale cattolico di San Salvador. Ronald Reagan era alla Casa Bianca da appena tre mesi, la III Assemblea del Celam a Puebla (11 anni dopo il terremoto di Medellín e l’esplosione della stagione della «teologia della liberazione») si era conclusa da poco più di un anno. In quei mesi cruciali la «nuova guerra fredda» andava allargando le sue braccia, investendo con violenza l’intera America centrale[3]. Morto Romero, la guerra civile esplose definitivamente in El Salvador, aggiungendosi a quella silenziosa che da tempo scuoteva il Guatemala, mentre in Nicaruagua crescevano d’intensità le azioni terroristiche dei contras contro il governo sandinista. L’uccisione del vescovo di San Salvador ebbe allora una vasta eco sulla stampa internazionale e portò l’attenzione sulla sua azione, riconciliatrice da un lato, di strenua e coraggiosa denuncia sociale dall’altro. Scomode erano state innanzi tutto le iniziative promosse da Romero, in particolare nel periodo compreso tra l’estate del 1977 (pochi mesi dopo la sua nomina ad arcivescovo) e la sua morte. Mesi segnati da una costante quanto silenziosa escalation dell’azione repressiva dell’esercito e delle formazioni paramilitari di estrema destra, attive in particolar modo nelle campagne, dove era cresciuta la capacità di mobilitazione della guerriglia di sinistra. Scomode, ancora di più, perché promosse da un vescovo che prima del suo approdo nella capitale godeva fama di moderato e che, al massimo, si pensava potesse trasformarsi in un silenzioso mediatore, lontano per formazione e cultura dai «deviazionismi» dei teologi della liberazione. Eppure come arcivescovo, Romero non avrebbe tardato ad avvicinarsi operativamente ad un filosofo come il gesuita Ignacio Ellacuria, tra i più fini e sobri interpreti della rilettura della opción para los pobres[4], rigorosamente applicata alla specificità del contesto salvadoregno. Proprio Ellacuria, che il 16 novembre del 1989 sarebbe stato tra i sei padri gesuiti uccisi nella Uca, avrebbe sottolineato la «scomodità innovativa» dell’azione di Romero, derivante innanzi tutto dalla fusione tra la sua spinta etica e quella che definì «pura intelligenza pastorale». Una fusione che nasceva da quell’essersi fatto carico della realtà salvadoregna, fino al sacrificio più estremo.
I frutti di quell’impegno erano stati numerosi e concretamente riscontrabili: dall’attività di denuncia della radio della diocesi e della Commissione per i diritti umani (affidata a Marianela García Villas, anch’essa uccisa tragicamente, tre anni dopo Romero e sei prima di Ellacuria), agli elenchi di vittime identificate, letti al termine delle messe in cattedrale – la risposta più efficace e originale al sistema delle «morti silenziose», dei desaparecidos senza più nome né volto – dai programmi di sostegno giuridico alle famiglie degli scomparsi alla fiducia riposta nella rete delle comunità ecclesiali di base. Uno spirito che si ritrova pienamente nelle pagine del diario del vescovo e ancor più nei testi delle sue omelie[5], sempre più decise via via che la situazione del paese andava degenerando, con i noti appelli ai combattenti, ai militari, ai politici e ai rappresentanti dell’oligarchia, per un’immediata cessazione della violenza, che pervadeva il paese, nelle fincas del caffè, nei villaggi, nelle università e nelle strade della capitale.
La «terza dimensione» della scomodità di Romero veniva infine dalla sua capacità di dare una dimensione internazionale alla vicenda salvadoregna, nonostante le resistenze incontrate nel suo episcopato e nella stessa curia romana. Un’operazione di vasto respiro che realizzò attraverso iniziative eclatanti come la lettera al presidente Carter o il discorso di Lovanio, un inno alla giustizia sociale, letto un mese prima di essere ucciso; un’attività che gli valse premi, riconoscimenti, perfino una candidatura al Nobel per la pace, esperienze che ebbero come effetto principale quello di portare la vicenda salvadoregna alla ribalta delle cronache mondiale. L’assassinio e il tragico funerale del vescovo, risuonarono dunque come una capitolazione finale per alcuni, come una «resurrezione» per altri.
Le voci e i silenzi
Anche in Italia, mentre un piccolo drappello di giornalisti cominciò a spostarsi verso el pulgarcito de America, quella morte durante la messa, per la sua natura e la sua genesi, colpì con virulenza una parte dell’opinione pubblica, della società civile e di quel mondo, cattolico e non, più sensibile verso i temi del «terzomondismo». Raniero La Valle, Abramo Levi, padre David Maria Turoldo, il piccolo fratello Arturo Paoli, l’ex salesiano Giulio Girardi, mons. Bettazzi – solo per citare i nomi più famosi – scelsero, ognuno per proprie vie, l’esperienza di Romero come un «punto di non ritorno», per la storia della Chiesa e della società contemporanea, aprendo una riflessione, spesso esposta ai limiti della più aperta indignazione, sulla praticabilità della opción de los pobres. Certo non mancarono le semplificazioni, spesso figlie di una scarsa dimestichezza con la specifica originalità del contesto centroamericano, ma generalmente il fermento socio-culturale che si creò attorno al nome di Romero e a quella sua omelia spezzata contribuì alla ridefinizione in atto di molte esperienze postconciliari, in seno a movimenti pacifisti e allo stesso associazionismo cattolico[6]. La nascita di eterogenee esperienze ispirate più o meno direttamente dalla vicenda del vescovo di San Salvador (si pensi, tra gli altri, al gruppo che avrebbe dato vita già nel 1981 alla rivista «Il Margine», nato attorno all’Associazione culturale Oscar Romero di Trento), la ridefinizione di alcuni programmi di cooperazione diretti al Centroamerica (l’attività di promozione sociale e monitoraggio svolta da organizzazioni come Mani tese e Pax Christi durante gli anni della guerra civile), il fiorire di nuove missionarietà, di reti informali di appoggio…furono segnali di una ricezione «creativa» del messaggio di Romero.
Quindi mentre da una certa parte del mondo cattolico il «caso» Romero veniva accolto con freddezza e preoccupazione e mentre si sommavano reticenze e imbarazzi nella Democrazia cristiana italiana per il ruolo ambiguo svolto dai «cugini» di partito salvadoregni (con alcune, pur significative eccezioni, come quella di Luigi Granelli), sul fronte del cattolicesimo democratico, e ancor più di quello pacifista, si insistette molto sulla dimensione testimoniale della morte del vescovo e sul carattere simbolico del suo sacrificio: il suo essersi «fatto popolo», l’immagine stessa del martire popolare coniata in un’appassionata poesia di Pedro Casaldáliga[7], lanciava un segnale. Romero diventava così un nodo «unitivo» tra le due sponde dell’oceano, tra quanto avveniva in un Centroamerica precipitato nel baratro della tragedia e quanto restava in sospeso in Europa. Era uno sprone ad agire, ognuno nella propria dimensione (Turoldo che scrisse il suo: «Amico qui ti devi fermare. E medita. E rileggi. E cerca; anzi, cerchiamo di capire: perché siamo tutti coinvolti»[8]). Da qui allora si comprendono forse meglio l’attenzione e l’accentuazione alla spiritualità di quella morte, ai riferimenti alla croce ma ancor più all’idea di «conversione» del vescovo, di fronte all’ingiustizia, continuamente rimarcata, da tutti i biografi della prima ora[9]. La messa unica in cattedrale dopo l’uccisione di Rutilio Grande, percepita come il segno di una Chiesa che tornava alle sue origini comunitarie, riunendosi dietro al suo vescovo che si era fatto nuovamente pastore, così come la richiesta di pentimento per i mandanti dell’omicidio del padre Ortíz e di quattro suoi giovani collaboratori, diventavano simboli di riscatto e catalizzatori universali delle coscienze. Per altre vie lo stesso cardinal Martini, aveva colto la potenza di quel messaggio, e l’aveva voluto far suo, insediandosi alla guida dell’arcidiocesi ambrosiana, nel marzo del 1980.
La memoria sospesa
Torniamo allora alla domanda iniziale, ovvero che ne è stato poi di Romero? Perché la grande mobilitazione iniziale delle coscienze si è poi andata gradualmente attenuando sotto i colpi di nuove logiche divisorie e dogmi trionfanti. All’interno della Chiesa innanzitutto, dove la memoria del vescovo è stata fin dall’inizio divisa, come testimonia il travagliato viaggio del Papa in Centroamerica del 1983, quello delle contestazioni a Managua, della pubblica reprimenda a Ernesto Cardenal e di una simbolicamente complicata visita alla tomba del monsignore ucciso. E’ indubbio che non solo la parte dell’episcopato che più si era dimostrata ostile a Romero (mons. Aparicio y Quintanilla su tutti, il più fervido sostenitore della necessità di un basso clero disciplinato e ubbidiente), sostenuta dalla stampa conservatrice («El diario de hoy» e «La Prensa Gráfica») che tendeva a costruire l’immagine di un uomo «debole» manovrato da agitatori di sinistra («purtroppo era un terzomondista» avrebbe confessato uno degli uomini forti della giunta golpista, il generale Abdullah Gutiérrez, all’inviato Maurizio Chierici[10]), avesse un conto aperto con il vescovo, ma la sua «scomodità» non tardò ad agire anche su altri fronti. La conservazione della sua memoria, dentro e fuori l’America latina, fu infatti guardata con sospetto da numerosi esponenti dell’episcopato, portatori di un nuovo conservatorismo che corrispondeva spesso a una frattura «pubblica» con l’opción para los pobres e con le teorie sulla chiesa incarnata nella pluriculturalità latinoamericana; una linea che portava alla definizione di nuovi (e al tempo stesso molto vecchi) parametri del rapporto Chiesa-istituzioni e ancor più ad una «sterilizzazione preventiva» del collegamento tra fede, politica e impegno sociale. In tal senso la testimonianza di Romero, che pure nella sua vita aveva sempre manifestato una fiducia totale nelle istituzioni ecclesiastiche e un grande rispetto per la gerarchia, non coincideva certo con la valorizzazione incipiente di una religiosità «acritica» del temporale e di un cattolicesimo che in molte realtà latinoamericane sembrava disposto a seguire per un verso l’esempio delle chiese evangeliche e protestanti, all’insegna del disimpegno politico e di un’azione sociale più «compassionevole» che «caritatevole». L’esatto opposto di quell’invito al cambiamento che il rispettoso Romero aveva lanciato ai cristiani salvadoregni nel travagliato 1979: «Rivolgo un appello a tutti voi, artefici di tante famiglie, costruttori di tanti focolari: che ogni famiglia nel Salvador non sia un ostacolo agli urgenti cambiamenti di cui ha bisogno la società … L’uomo, la donna devono uscire di casa, essere capaci poi di promuovere nella politica, nella società, nelle vie della giustizia, i cambiamenti necessari, che non si faranno finché le famiglie si oppongono. Invece sarà più facile quando, nell’intimità di ciascuna famiglia, si formino figli e figlie che non si preoccupino di avere di più, di non riuscire ad ottenere tutto, ma di dare a piene mani agli altri. Ci si deve educare nell’amore … Amare è dedicarsi al benessere di tutti, è operare per il bene comune»[11]. Nella stagione della globalizzazione, nonostante i continui sforzi di valorizzazione della memoria, compiuti da collaboratori di Romero (si pensi a personaggi quali mons. Urioste e Rosa Chávez), da associazioni popolari (si pensi all’Equipo maíz e alle Comunità ecclesiali di base salvadoregne), da studiosi e da cultori della memoria, la dimensione profondamente sociale della testimonianza di fede di Romero non è apparsa certo in linea con i dogmi delle grandi privatizzazioni, delle migrazioni selvagge (più di un terzo dei salvadoregni è oggi all’estero), delle maquilas e di una società segnata dall’insorgere di nuovi populismi e forme di disgregazione sociale, culturale e religiosa.
Solo in anni recenti, sull’onda di un allentamento delle schematizzazioni, si è assistito ad una graduale quanto costante ripresa dell’interesse intorno alla figura di Romero. Questo riavvicinamento è avvenuto a volte in termini apologetici, altre attraverso operazioni più articolate di confronto con la memoria che hanno contribuito a una storicizzazione del personaggio (collocando la sua azione sociale nel solco del lavoro pastorale avviato dal suo predecessore Chávez y Gónzales), ricollocando il mito della «conversione» nel quadro della degenerazione socio-politica della crisi salvadoregna[12]. E’ un’operazione essenziale e cruciale quella che porta a rileggere la figura di Romero secondo i criteri documentali (fonti d’archivio ma anche orali) dello storico, spogliando di stereotipi e letture ideologiche. Al contempo serve un’alta soglia di attenzione nel lavoro sulla memoria. Esiste oggi infatti anche un rischio sottile, che a fianco della ricerca, in un contesto si generale «demitizzazione» di quelli che erano i punti di riferimento delle culture «terzomondiste», si generino processi di latro tipo. Ad esempio un eccesso di «normalizzazione» del caso Romero (non nel senso della turoldiana «conversione» dell’uomo normale ma in quello della «ordinarietà» del moderato trovatosi improvvisamente nel contesto radicalizzante della guerra fredda) rischierebbe di mettere in secondo piano la natura stessa della sua coraggiosa azione «riconciliatrice» e di aprire la strada a un processo di ridimensionamento della scomodità del vescovo nel contesto del tempo. Perché è vero che Romero, per formazione teologica, culturale ed esperienza ecclesiale era lontano da Gustavo Gutiérrez, da Leonardo Boff e, forse, anche da Jon Sobrino, ma è altrettanto vero che le sue prese di posizione assunsero una consapevole e drammatica dimensione socio-politica, in un certo senso unica per il suo collegamento alla realtà nazionale e per la sua portata storica[13].
I vulcani della speranza
El Salvador è un paese di vulcani. Quando, diversi anni fa, vi giunsi, il mio impatto con quella terra, e con Romero, fu a suo modo sconcertante. Il vescovo della denuncia che era stato tenuto in un «limbo» di sospetto aveva comunque tracimato le precauzionali barriere protettive. La sua salma era nella cattedrale, in una delle tante città latinoamericane che divorano quotidianamente l’anima dei loro abitanti. Ma il suo carattere di santo popolare riemergeva man mano che ci si allontanava dalla capitale. Nelle piccole case di lamiera delle comunità contadine, sospeso su altarini improvvisati, a fianco della Virgen de Guadalupe e dell’immagine del Sagrado corazón, spesso sovrastandole nelle dimensioni; ancora nelle forme di foglie di mais e nelle piccole offerte di frutta nei mercati di Cantón zapote e sui murales della chiesa devastata dalla guerra di San Carlos Lempa. Qui non si trattava di un’iconografia importata mediaticamente, né di una religiosità venuta dalla televisione (come avviene per molte chiese evangeliche di origine statunitense) o controllata dall’alto da movimenti settari; era il frutto di un elemento di resistenza periferica, espressione di quell’anima spesso trascurata del cattolicesimo centroamericano, che è poi quella più radicalmente ancorata alla sua matrice ancestrale e mesoamericana. Una componente viva nella sua originalità ma spesso dimenticata nelle analisi storiche, specie quando la matrice indigena non è così marcata, come nel caso dei maya del Guatemala, ma resta latente e nascosta nella cultura mestiza del mondo contadino. E se in Messico, dalla stagione indipendentista, la Guadalupe è divenuta un enorme simbolo identitario di un paese socialmente ed etnicamente assai articolato, un simbolo capace di attraversare barriere politiche e sociali, con una trasversalità impressionante, Romero a suo modo in 25 anni è diventato un autentico «santo popolare», espressione però solo di una parte della società, quella che più ha sopportato il peso della guerra e che soffre ancora oggi un diffuso disagio sociale.
La vera riconciliazione, che non permette omissioni della verità ma richiede un faticoso processo di confronto e ricostruzione della memoria, deve passare quindi anche per un recupero di questa dimensione popolare e della sua valenza sociale e politica. Questo dato forse dovrebbe farci riflettere, così come la scomparsa di Romero in molte case dei barrios libres della periferia di San Salvador, oggi sconvolti dalla criminalità, contrapposta alla sua resistenza nelle «periferie» del paese, tra gruppi di esuli ed emigranti. Proprio in questi villaggi e comunità campesinas, oggi marginali come prima della guerra, Romero ha assunto una dimensione nuova, ancor prima che nel «vecchio Occidente», e trascurando questa particolare reincarnazione del suo messaggio testimoniale, si profila il rischio di imbrigliarne in qualche modo la portata. La scomodità di Romero stava in fondo, prima di tutto nel suo messaggio sociale, cristiano ancor prima che politico e per questo profondamente universale, come padre Turoldo e il cardinal Martini, avevano compreso invitando a rompere l’indifferenza, e auspicando una cultura della condivisione e del rispetto, come postulato primo per la costruzione di una politica nuova, di una diplomazia multilaterale e, in ultima istanza, di una società sempre più universale.
Disse lo stesso Romero in una sua nota omelia contro i pericoli dell’indifferenza: «Grazie a Dio, quando si alza una punta del velo e si intravede un frammento del mistero dell’iniquità, allora forse si può avere una speranza»[14]. Con questi discorsi non aveva fatto altro che tornare alla sua origine, riscoprendo il valore della sua comunità. La riconciliazione vera e profonda allora passa anche da qui, da sentieri solo accennati e forse mai pienamente intrapresi.
[1] Da «Appunti di cultura e politica», 2/2005, pp. 42-47.
[2] Nel 2004 un tribunale della California ha condannato, in contumacia, a un risarcimento di dieci milioni di dollari, un ufficiale delle Forze aeree salvadoregne, da anni residente negli Usa, Álvaro Saravia, come uno dei mandanti intellettuali, coinvolti nella rete che organizzò l’omicidio dell’arcivescovo. Nel processo ha testimoniato, tra gli altri, l’ex ambasciatore statunitense a San Salvador, poi rimosso dall’amministrazione Reagan, Robert White.
[3] Su questi temi vedasi ora: M. De Giuseppe (a cura di), Oscar Romero. Storia, memoria, attualità, Emi, Bologna 2006.
[4] Si veda in particolare Ser gesuita hoy en El Salvador, in «Estudios Centroamericanos», novembre-dicembre 1989.
[5] O. A. Romero, Diario, tr.it., La Meridiana, Molfetta 1990. Il volume fu pubblicato in Italia da Pax Christi con una prefazione di Luigi Bettazzi e una postazione di Turoldo. Tutte le omelie sono state poi pubblicate, grazie al lavoro del suo ausiliare, e poi presidente della Fundación Oscar Romero, Ricardo Urioste, nella serie «Sentir con la Iglesia», Voz y pensamento de monseñor Oscar Romero, Publicaciones pastorales de la catedral, San Salvador.
[6] Si vedano il lavoro di Ettore Masina, Oscar Romero, Cultura della pace, Fiesole 1993, introdotto dal brasiliano Leonardo Boff, che pone il vescovo nel solco culturale dei grandi testimoni della teologia della liberazione.
[7] P. Casaldáliga, San Romero de America, Pastore e martire nostro, anche in P. Richard, La forza spirituale della parola di mons. Romero, Sicsal-Gor, Milano 2005.
[8] D. M. Turoldo, Romero un vescovo fatto popolo, in «Emmaus», gennaio 1981, anche in Lettere dalla casa di Emmaus, Servitium, Sotto il monte, 1996. Su Turoldo e Romero si veda anche M. De Giuseppe, L’America di Turoldo, in Aa. Vv., Laicità e profezia. La vicenda di David Maria Turoldo, Servitium, Sotto il monte 2003.
[9] Si vedano, tra gli altri, J. Sobrino, I. M. Baró e R. Cardenal La voz de los sin voz. La palabra viva de Monseñor Romero, Uca, San Salvador 1980, P. Erdozain, Monseñor Romero, martir de la iglesia popular, Educa, San José 1980, J. R. Brockman, La palabra queda viva: vida de monseñor Oscar A. Romero, Uca, San Salvador 1982 e M. López Vigil, Piezas para un retrato, Uca, San Salvador 1993.
[10] M. Chierici, Romero, l’ultima omelia, in «L’Unità», 14 marzo 2005, pp. 1 e 27.
[11] Dall’omelia del 7 ottobre 1979. In Romero, La violenza dell’amore (raccolta di interventi e omelie a cura di J. R. Brockman e H. J.M. Nouwen), Città nuova, Roma 2002, p. 172.
[12] Tra i lavori storici si vedano: J. Meyer, Oscar Romero e l’America centrale del suo tempo, tr. it., Studium, Roma 2003, R. Morozzo della Rocca (a cura di), Oscar Romero. Un vescovo centroamericano tra guerra fredda e rivoluzione, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003R. Morozzo della Rocca, Primero Dios. Vita di Oscar Romero, Mondadori, Milano 2005 e il già citato M. De Giuseppe, O. Romero. Storia, memoria, attualità. Una raccolta interessante di testimonianze orali si trova invece in M. López Vigil, Monsignor Romero. Frammenti per un ritratto, tr. it., Nda, Rimini 2005.
[13] Si veda il ricordo di don Alberto Vitali, Romero. L’arcivescovo scomodo in peacelink.it/romero/articoli/romero.htm.
[14] Da La Eucarestia, presencia viva y vivificante de Cristo en la historia, omelia del 17 giugno 1979 per i funerali del padre Rafael Palacios, in «Sentir con la Iglesia», 23.
Oscar Romero: tra silenzio e memoria
Massimo De Giuseppe[1]
La morte e la testimonianza
Era il 24 marzo del 1980, quando Romero venne freddato da un killer, forse non più senza nome[2], nella cappella di un ospedale cattolico di San Salvador. Ronald Reagan era alla Casa Bianca da appena tre mesi, la III Assemblea del Celam a Puebla (11 anni dopo il terremoto di Medellín e l’esplosione della stagione della «teologia della liberazione») si era conclusa da poco più di un anno. In quei mesi cruciali la «nuova guerra fredda» andava allargando le sue braccia, investendo con violenza l’intera America centrale[3]. Morto Romero, la guerra civile esplose definitivamente in El Salvador, aggiungendosi a quella silenziosa che da tempo scuoteva il Guatemala, mentre in Nicaruagua crescevano d’intensità le azioni terroristiche dei contras contro il governo sandinista. L’uccisione del vescovo di San Salvador ebbe allora una vasta eco sulla stampa internazionale e portò l’attenzione sulla sua azione, riconciliatrice da un lato, di strenua e coraggiosa denuncia sociale dall’altro. Scomode erano state innanzi tutto le iniziative promosse da Romero, in particolare nel periodo compreso tra l’estate del 1977 (pochi mesi dopo la sua nomina ad arcivescovo) e la sua morte. Mesi segnati da una costante quanto silenziosa escalation dell’azione repressiva dell’esercito e delle formazioni paramilitari di estrema destra, attive in particolar modo nelle campagne, dove era cresciuta la capacità di mobilitazione della guerriglia di sinistra. Scomode, ancora di più, perché promosse da un vescovo che prima del suo approdo nella capitale godeva fama di moderato e che, al massimo, si pensava potesse trasformarsi in un silenzioso mediatore, lontano per formazione e cultura dai «deviazionismi» dei teologi della liberazione. Eppure come arcivescovo, Romero non avrebbe tardato ad avvicinarsi operativamente ad un filosofo come il gesuita Ignacio Ellacuria, tra i più fini e sobri interpreti della rilettura della opción para los pobres[4], rigorosamente applicata alla specificità del contesto salvadoregno. Proprio Ellacuria, che il 16 novembre del 1989 sarebbe stato tra i sei padri gesuiti uccisi nella Uca, avrebbe sottolineato la «scomodità innovativa» dell’azione di Romero, derivante innanzi tutto dalla fusione tra la sua spinta etica e quella che definì «pura intelligenza pastorale». Una fusione che nasceva da quell’essersi fatto carico della realtà salvadoregna, fino al sacrificio più estremo.
I frutti di quell’impegno erano stati numerosi e concretamente riscontrabili: dall’attività di denuncia della radio della diocesi e della Commissione per i diritti umani (affidata a Marianela García Villas, anch’essa uccisa tragicamente, tre anni dopo Romero e sei prima di Ellacuria), agli elenchi di vittime identificate, letti al termine delle messe in cattedrale – la risposta più efficace e originale al sistema delle «morti silenziose», dei desaparecidos senza più nome né volto – dai programmi di sostegno giuridico alle famiglie degli scomparsi alla fiducia riposta nella rete delle comunità ecclesiali di base. Uno spirito che si ritrova pienamente nelle pagine del diario del vescovo e ancor più nei testi delle sue omelie[5], sempre più decise via via che la situazione del paese andava degenerando, con i noti appelli ai combattenti, ai militari, ai politici e ai rappresentanti dell’oligarchia, per un’immediata cessazione della violenza, che pervadeva il paese, nelle fincas del caffè, nei villaggi, nelle università e nelle strade della capitale.
La «terza dimensione» della scomodità di Romero veniva infine dalla sua capacità di dare una dimensione internazionale alla vicenda salvadoregna, nonostante le resistenze incontrate nel suo episcopato e nella stessa curia romana. Un’operazione di vasto respiro che realizzò attraverso iniziative eclatanti come la lettera al presidente Carter o il discorso di Lovanio, un inno alla giustizia sociale, letto un mese prima di essere ucciso; un’attività che gli valse premi, riconoscimenti, perfino una candidatura al Nobel per la pace, esperienze che ebbero come effetto principale quello di portare la vicenda salvadoregna alla ribalta delle cronache mondiale. L’assassinio e il tragico funerale del vescovo, risuonarono dunque come una capitolazione finale per alcuni, come una «resurrezione» per altri.
Le voci e i silenzi
Anche in Italia, mentre un piccolo drappello di giornalisti cominciò a spostarsi verso el pulgarcito de America, quella morte durante la messa, per la sua natura e la sua genesi, colpì con virulenza una parte dell’opinione pubblica, della società civile e di quel mondo, cattolico e non, più sensibile verso i temi del «terzomondismo». Raniero La Valle, Abramo Levi, padre David Maria Turoldo, il piccolo fratello Arturo Paoli, l’ex salesiano Giulio Girardi, mons. Bettazzi – solo per citare i nomi più famosi – scelsero, ognuno per proprie vie, l’esperienza di Romero come un «punto di non ritorno», per la storia della Chiesa e della società contemporanea, aprendo una riflessione, spesso esposta ai limiti della più aperta indignazione, sulla praticabilità della opción de los pobres. Certo non mancarono le semplificazioni, spesso figlie di una scarsa dimestichezza con la specifica originalità del contesto centroamericano, ma generalmente il fermento socio-culturale che si creò attorno al nome di Romero e a quella sua omelia spezzata contribuì alla ridefinizione in atto di molte esperienze postconciliari, in seno a movimenti pacifisti e allo stesso associazionismo cattolico[6]. La nascita di eterogenee esperienze ispirate più o meno direttamente dalla vicenda del vescovo di San Salvador (si pensi, tra gli altri, al gruppo che avrebbe dato vita già nel 1981 alla rivista «Il Margine», nato attorno all’Associazione culturale Oscar Romero di Trento), la ridefinizione di alcuni programmi di cooperazione diretti al Centroamerica (l’attività di promozione sociale e monitoraggio svolta da organizzazioni come Mani tese e Pax Christi durante gli anni della guerra civile), il fiorire di nuove missionarietà, di reti informali di appoggio…furono segnali di una ricezione «creativa» del messaggio di Romero.
Quindi mentre da una certa parte del mondo cattolico il «caso» Romero veniva accolto con freddezza e preoccupazione e mentre si sommavano reticenze e imbarazzi nella Democrazia cristiana italiana per il ruolo ambiguo svolto dai «cugini» di partito salvadoregni (con alcune, pur significative eccezioni, come quella di Luigi Granelli), sul fronte del cattolicesimo democratico, e ancor più di quello pacifista, si insistette molto sulla dimensione testimoniale della morte del vescovo e sul carattere simbolico del suo sacrificio: il suo essersi «fatto popolo», l’immagine stessa del martire popolare coniata in un’appassionata poesia di Pedro Casaldáliga[7], lanciava un segnale. Romero diventava così un nodo «unitivo» tra le due sponde dell’oceano, tra quanto avveniva in un Centroamerica precipitato nel baratro della tragedia e quanto restava in sospeso in Europa. Era uno sprone ad agire, ognuno nella propria dimensione (Turoldo che scrisse il suo: «Amico qui ti devi fermare. E medita. E rileggi. E cerca; anzi, cerchiamo di capire: perché siamo tutti coinvolti»[8]). Da qui allora si comprendono forse meglio l’attenzione e l’accentuazione alla spiritualità di quella morte, ai riferimenti alla croce ma ancor più all’idea di «conversione» del vescovo, di fronte all’ingiustizia, continuamente rimarcata, da tutti i biografi della prima ora[9]. La messa unica in cattedrale dopo l’uccisione di Rutilio Grande, percepita come il segno di una Chiesa che tornava alle sue origini comunitarie, riunendosi dietro al suo vescovo che si era fatto nuovamente pastore, così come la richiesta di pentimento per i mandanti dell’omicidio del padre Ortíz e di quattro suoi giovani collaboratori, diventavano simboli di riscatto e catalizzatori universali delle coscienze. Per altre vie lo stesso cardinal Martini, aveva colto la potenza di quel messaggio, e l’aveva voluto far suo, insediandosi alla guida dell’arcidiocesi ambrosiana, nel marzo del 1980.
La memoria sospesa
Torniamo allora alla domanda iniziale, ovvero che ne è stato poi di Romero? Perché la grande mobilitazione iniziale delle coscienze si è poi andata gradualmente attenuando sotto i colpi di nuove logiche divisorie e dogmi trionfanti. All’interno della Chiesa innanzitutto, dove la memoria del vescovo è stata fin dall’inizio divisa, come testimonia il travagliato viaggio del Papa in Centroamerica del 1983, quello delle contestazioni a Managua, della pubblica reprimenda a Ernesto Cardenal e di una simbolicamente complicata visita alla tomba del monsignore ucciso. E’ indubbio che non solo la parte dell’episcopato che più si era dimostrata ostile a Romero (mons. Aparicio y Quintanilla su tutti, il più fervido sostenitore della necessità di un basso clero disciplinato e ubbidiente), sostenuta dalla stampa conservatrice («El diario de hoy» e «La Prensa Gráfica») che tendeva a costruire l’immagine di un uomo «debole» manovrato da agitatori di sinistra («purtroppo era un terzomondista» avrebbe confessato uno degli uomini forti della giunta golpista, il generale Abdullah Gutiérrez, all’inviato Maurizio Chierici[10]), avesse un conto aperto con il vescovo, ma la sua «scomodità» non tardò ad agire anche su altri fronti. La conservazione della sua memoria, dentro e fuori l’America latina, fu infatti guardata con sospetto da numerosi esponenti dell’episcopato, portatori di un nuovo conservatorismo che corrispondeva spesso a una frattura «pubblica» con l’opción para los pobres e con le teorie sulla chiesa incarnata nella pluriculturalità latinoamericana; una linea che portava alla definizione di nuovi (e al tempo stesso molto vecchi) parametri del rapporto Chiesa-istituzioni e ancor più ad una «sterilizzazione preventiva» del collegamento tra fede, politica e impegno sociale. In tal senso la testimonianza di Romero, che pure nella sua vita aveva sempre manifestato una fiducia totale nelle istituzioni ecclesiastiche e un grande rispetto per la gerarchia, non coincideva certo con la valorizzazione incipiente di una religiosità «acritica» del temporale e di un cattolicesimo che in molte realtà latinoamericane sembrava disposto a seguire per un verso l’esempio delle chiese evangeliche e protestanti, all’insegna del disimpegno politico e di un’azione sociale più «compassionevole» che «caritatevole». L’esatto opposto di quell’invito al cambiamento che il rispettoso Romero aveva lanciato ai cristiani salvadoregni nel travagliato 1979: «Rivolgo un appello a tutti voi, artefici di tante famiglie, costruttori di tanti focolari: che ogni famiglia nel Salvador non sia un ostacolo agli urgenti cambiamenti di cui ha bisogno la società … L’uomo, la donna devono uscire di casa, essere capaci poi di promuovere nella politica, nella società, nelle vie della giustizia, i cambiamenti necessari, che non si faranno finché le famiglie si oppongono. Invece sarà più facile quando, nell’intimità di ciascuna famiglia, si formino figli e figlie che non si preoccupino di avere di più, di non riuscire ad ottenere tutto, ma di dare a piene mani agli altri. Ci si deve educare nell’amore … Amare è dedicarsi al benessere di tutti, è operare per il bene comune»[11]. Nella stagione della globalizzazione, nonostante i continui sforzi di valorizzazione della memoria, compiuti da collaboratori di Romero (si pensi a personaggi quali mons. Urioste e Rosa Chávez), da associazioni popolari (si pensi all’Equipo maíz e alle Comunità ecclesiali di base salvadoregne), da studiosi e da cultori della memoria, la dimensione profondamente sociale della testimonianza di fede di Romero non è apparsa certo in linea con i dogmi delle grandi privatizzazioni, delle migrazioni selvagge (più di un terzo dei salvadoregni è oggi all’estero), delle maquilas e di una società segnata dall’insorgere di nuovi populismi e forme di disgregazione sociale, culturale e religiosa.
Solo in anni recenti, sull’onda di un allentamento delle schematizzazioni, si è assistito ad una graduale quanto costante ripresa dell’interesse intorno alla figura di Romero. Questo riavvicinamento è avvenuto a volte in termini apologetici, altre attraverso operazioni più articolate di confronto con la memoria che hanno contribuito a una storicizzazione del personaggio (collocando la sua azione sociale nel solco del lavoro pastorale avviato dal suo predecessore Chávez y Gónzales), ricollocando il mito della «conversione» nel quadro della degenerazione socio-politica della crisi salvadoregna[12]. E’ un’operazione essenziale e cruciale quella che porta a rileggere la figura di Romero secondo i criteri documentali (fonti d’archivio ma anche orali) dello storico, spogliando di stereotipi e letture ideologiche. Al contempo serve un’alta soglia di attenzione nel lavoro sulla memoria. Esiste oggi infatti anche un rischio sottile, che a fianco della ricerca, in un contesto si generale «demitizzazione» di quelli che erano i punti di riferimento delle culture «terzomondiste», si generino processi di latro tipo. Ad esempio un eccesso di «normalizzazione» del caso Romero (non nel senso della turoldiana «conversione» dell’uomo normale ma in quello della «ordinarietà» del moderato trovatosi improvvisamente nel contesto radicalizzante della guerra fredda) rischierebbe di mettere in secondo piano la natura stessa della sua coraggiosa azione «riconciliatrice» e di aprire la strada a un processo di ridimensionamento della scomodità del vescovo nel contesto del tempo. Perché è vero che Romero, per formazione teologica, culturale ed esperienza ecclesiale era lontano da Gustavo Gutiérrez, da Leonardo Boff e, forse, anche da Jon Sobrino, ma è altrettanto vero che le sue prese di posizione assunsero una consapevole e drammatica dimensione socio-politica, in un certo senso unica per il suo collegamento alla realtà nazionale e per la sua portata storica[13].
I vulcani della speranza
El Salvador è un paese di vulcani. Quando, diversi anni fa, vi giunsi, il mio impatto con quella terra, e con Romero, fu a suo modo sconcertante. Il vescovo della denuncia che era stato tenuto in un «limbo» di sospetto aveva comunque tracimato le precauzionali barriere protettive. La sua salma era nella cattedrale, in una delle tante città latinoamericane che divorano quotidianamente l’anima dei loro abitanti. Ma il suo carattere di santo popolare riemergeva man mano che ci si allontanava dalla capitale. Nelle piccole case di lamiera delle comunità contadine, sospeso su altarini improvvisati, a fianco della Virgen de Guadalupe e dell’immagine del Sagrado corazón, spesso sovrastandole nelle dimensioni; ancora nelle forme di foglie di mais e nelle piccole offerte di frutta nei mercati di Cantón zapote e sui murales della chiesa devastata dalla guerra di San Carlos Lempa. Qui non si trattava di un’iconografia importata mediaticamente, né di una religiosità venuta dalla televisione (come avviene per molte chiese evangeliche di origine statunitense) o controllata dall’alto da movimenti settari; era il frutto di un elemento di resistenza periferica, espressione di quell’anima spesso trascurata del cattolicesimo centroamericano, che è poi quella più radicalmente ancorata alla sua matrice ancestrale e mesoamericana. Una componente viva nella sua originalità ma spesso dimenticata nelle analisi storiche, specie quando la matrice indigena non è così marcata, come nel caso dei maya del Guatemala, ma resta latente e nascosta nella cultura mestiza del mondo contadino. E se in Messico, dalla stagione indipendentista, la Guadalupe è divenuta un enorme simbolo identitario di un paese socialmente ed etnicamente assai articolato, un simbolo capace di attraversare barriere politiche e sociali, con una trasversalità impressionante, Romero a suo modo in 25 anni è diventato un autentico «santo popolare», espressione però solo di una parte della società, quella che più ha sopportato il peso della guerra e che soffre ancora oggi un diffuso disagio sociale.
La vera riconciliazione, che non permette omissioni della verità ma richiede un faticoso processo di confronto e ricostruzione della memoria, deve passare quindi anche per un recupero di questa dimensione popolare e della sua valenza sociale e politica. Questo dato forse dovrebbe farci riflettere, così come la scomparsa di Romero in molte case dei barrios libres della periferia di San Salvador, oggi sconvolti dalla criminalità, contrapposta alla sua resistenza nelle «periferie» del paese, tra gruppi di esuli ed emigranti. Proprio in questi villaggi e comunità campesinas, oggi marginali come prima della guerra, Romero ha assunto una dimensione nuova, ancor prima che nel «vecchio Occidente», e trascurando questa particolare reincarnazione del suo messaggio testimoniale, si profila il rischio di imbrigliarne in qualche modo la portata. La scomodità di Romero stava in fondo, prima di tutto nel suo messaggio sociale, cristiano ancor prima che politico e per questo profondamente universale, come padre Turoldo e il cardinal Martini, avevano compreso invitando a rompere l’indifferenza, e auspicando una cultura della condivisione e del rispetto, come postulato primo per la costruzione di una politica nuova, di una diplomazia multilaterale e, in ultima istanza, di una società sempre più universale.
Disse lo stesso Romero in una sua nota omelia contro i pericoli dell’indifferenza: «Grazie a Dio, quando si alza una punta del velo e si intravede un frammento del mistero dell’iniquità, allora forse si può avere una speranza»[14]. Con questi discorsi non aveva fatto altro che tornare alla sua origine, riscoprendo il valore della sua comunità. La riconciliazione vera e profonda allora passa anche da qui, da sentieri solo accennati e forse mai pienamente intrapresi.
[1] Da «Appunti di cultura e politica», 2/2005, pp. 42-47.
[2] Nel 2004 un tribunale della California ha condannato, in contumacia, a un risarcimento di dieci milioni di dollari, un ufficiale delle Forze aeree salvadoregne, da anni residente negli Usa, Álvaro Saravia, come uno dei mandanti intellettuali, coinvolti nella rete che organizzò l’omicidio dell’arcivescovo. Nel processo ha testimoniato, tra gli altri, l’ex ambasciatore statunitense a San Salvador, poi rimosso dall’amministrazione Reagan, Robert White.
[3] Su questi temi vedasi ora: M. De Giuseppe (a cura di), Oscar Romero. Storia, memoria, attualità, Emi, Bologna 2006.
[4] Si veda in particolare Ser gesuita hoy en El Salvador, in «Estudios Centroamericanos», novembre-dicembre 1989.
[5] O. A. Romero, Diario, tr.it., La Meridiana, Molfetta 1990. Il volume fu pubblicato in Italia da Pax Christi con una prefazione di Luigi Bettazzi e una postazione di Turoldo. Tutte le omelie sono state poi pubblicate, grazie al lavoro del suo ausiliare, e poi presidente della Fundación Oscar Romero, Ricardo Urioste, nella serie «Sentir con la Iglesia», Voz y pensamento de monseñor Oscar Romero, Publicaciones pastorales de la catedral, San Salvador.
[6] Si vedano il lavoro di Ettore Masina, Oscar Romero, Cultura della pace, Fiesole 1993, introdotto dal brasiliano Leonardo Boff, che pone il vescovo nel solco culturale dei grandi testimoni della teologia della liberazione.
[7] P. Casaldáliga, San Romero de America, Pastore e martire nostro, anche in P. Richard, La forza spirituale della parola di mons. Romero, Sicsal-Gor, Milano 2005.
[8] D. M. Turoldo, Romero un vescovo fatto popolo, in «Emmaus», gennaio 1981, anche in Lettere dalla casa di Emmaus, Servitium, Sotto il monte, 1996. Su Turoldo e Romero si veda anche M. De Giuseppe, L’America di Turoldo, in Aa. Vv., Laicità e profezia. La vicenda di David Maria Turoldo, Servitium, Sotto il monte 2003.
[9] Si vedano, tra gli altri, J. Sobrino, I. M. Baró e R. Cardenal La voz de los sin voz. La palabra viva de Monseñor Romero, Uca, San Salvador 1980, P. Erdozain, Monseñor Romero, martir de la iglesia popular, Educa, San José 1980, J. R. Brockman, La palabra queda viva: vida de monseñor Oscar A. Romero, Uca, San Salvador 1982 e M. López Vigil, Piezas para un retrato, Uca, San Salvador 1993.
[10] M. Chierici, Romero, l’ultima omelia, in «L’Unità», 14 marzo 2005, pp. 1 e 27.
[11] Dall’omelia del 7 ottobre 1979. In Romero, La violenza dell’amore (raccolta di interventi e omelie a cura di J. R. Brockman e H. J.M. Nouwen), Città nuova, Roma 2002, p. 172.
[12] Tra i lavori storici si vedano: J. Meyer, Oscar Romero e l’America centrale del suo tempo, tr. it., Studium, Roma 2003, R. Morozzo della Rocca (a cura di), Oscar Romero. Un vescovo centroamericano tra guerra fredda e rivoluzione, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003R. Morozzo della Rocca, Primero Dios. Vita di Oscar Romero, Mondadori, Milano 2005 e il già citato M. De Giuseppe, O. Romero. Storia, memoria, attualità. Una raccolta interessante di testimonianze orali si trova invece in M. López Vigil, Monsignor Romero. Frammenti per un ritratto, tr. it., Nda, Rimini 2005.
[13] Si veda il ricordo di don Alberto Vitali, Romero. L’arcivescovo scomodo in peacelink.it/romero/articoli/romero.htm.
[14] Da La Eucarestia, presencia viva y vivificante de Cristo en la historia, omelia del 17 giugno 1979 per i funerali del padre Rafael Palacios, in «Sentir con la Iglesia», 23.