Pirateria somala. Meno sequestri nel 2011.

Di Ferdinando Pelliccia –  liberoreporter.eu

Quello in corso è un anno di magra per i pirati somali. Al largo della Somalia gli atti di pirateria marittima pur raggiungendo un livello record dall’inizio dell’anno, almeno 200, in pochi sono andati a buon fine, solo 24.

Per questo motivo le gang del mare tendono a gestire in maniera più ferma le trattative, anche ci sono stati casi in cui hanno anche svenduto, per ottenere il massimo realizzo dal rilascio delle navi e marittimi che hanno già in mano. A dimostrazione il fatto che seppure abbiano ‘lavorato’ di meno, mentre nel 2010 avevano incassato almeno 110 mln di dollari, nel 2011  incasseranno almeno 190 mln di dollari. Il motivo per il quale gli attacchi pirati si concludono sempre più spesso con dei fallimenti è da ricercare nell’aumento e rafforzamento dei modi e misure di contrasto e difesa. Questi due fattori hanno fortemente ridotto le possibilità di successo nell’assalto alle navi nel mare del Corno D’Africa e Oceano Indiano.

I pirati somali ora sono disperati e questo li rende pericolosi
Il fatto che diventa sempre più difficile  dirottare le navi non dimostra però, che i predoni del mare abbiano perso la capacità di farlo per cui il rischio e il pericolo di un attacco pirata rimane comunque alto.
L’obiettivo dei pirati somali è quello di prendere la nave, l’equipaggio e il carico intatti per poi poter chiedere un riscatto in cambio del loro rilascio. L’incasso di riscatti milionari ha fatto di questa attività criminale, nel corso degli anni, un vero e proprio business. Il sentiero che il denaro proveniente dai riscatti percorre è ormai ben definito e consolidato. Uomini d’affari lo riciclano e lo investono attraverso i Paesi sviluppati e spesso anche attraverso quelli ricchi di petrolio.  Esiste un vero e proprio mercato che ruota intorno al fenomeno. L’intero processo è gestito quasi come una borsa con quotazioni che salgono e scendono a secondo del successo o fallimento degli abbordaggi delle varie gang del mare
che agiscono come delle vere e proprie imprese private.

I pirati somali operano nei pressi del Corno d’Africa e nell’Oceano Indiano
Di recente è cresciuto, da parte loro, il ricorso all’utilizzo delle navi catturate come  ‘Nave-madre’. Si tratta di una nave pirata che viene utilizzata come unità di supporto di lungo raggio per condurre attacchi pirati con i barchini  in profondità nell’Oceano Indiano. Uno o due Barchini che carichi di 6 -7  uomini ciascuno, tentano di arrembare una nave più grande. Gli armatori stanno facendo ricorso sempre più frequentemente ai team di sicurezza armati a bordo delle navi.  La loro funzione è quindi prettamente di difesa e la loro presenza ha lo scopo di scoraggiare, piuttosto che provocare i pirati. Comunque, in caso di attacco questi  uomini, che sono degli specialisti della sicurezza marittima, possono anche attaccare per difendersi. I pirati comunque hanno preso le contromisure necessarie. A causa di ciò, le piccole imbarcazioni pirate ora sono alimentate con 7-10 uomini a bordo per dare più forza d’urto agli arrembaggi.
In questo modo sperano, con più uomini, di riuscire a sopraffare l’equipaggio della nave attaccata. Un accorgimento che ha dato risultati positivi quando ad essere  attaccata è stata una ‘nave indifesa’ ossia senza team di sicurezza a bordo.Questo ha finito per alimentare la fiducia dei predoni del mare e spingerli a compiere ulteriori tentativi. Tentativi che però, si sono scontrati con la nuova realtà.
I membri dell’equipaggio  di una nave sono dei semplici lavoratori del mare e non sono addestrati a combattere. I team di sicurezza armati a bordo delle loro navi sono invece tiratori eccezionali ed ex militari e per di più provenienti  dalle forze speciali d’elite come US NAVY SEALS o BRITISH SBS.  Per cui finora ogni attacco pirata è stato sempre respinto, con gravi perdite da parte degli attaccanti, e nessuna nave è caduta più nelle mani dei predoni del mare.
Questa forma di difesa, dai banditi del mare, si è dimostrata in breve tempo molto più valida di altre che da anni sono state adottate.
Infatti, il ricorso a tutte le tecnologie disponibili anti pirati come cannoni ad acqua, cannoni sonori (LRAD), reti, filo spinato, filo elettrificato, sapone, manovre evasive, e navi da guerra in  pattugliamento costiero internazionale e guardia costiera nazionale non hanno sortito lo stesso effetto.
Ben consapevoli della ‘forza’ dei team di sicurezza i pirati somali hanno comunque tentato di attaccare le navi protette, ma ne sono usciti con le ‘ossa rotte’. Questo dimostra che oltre ad essere audaci sono appunto disperati e la disperazione potrebbe rivelarsi la nuova arma dei predoni del mare ed un pericolo per tutti.
Nonostante negli ultimi 36 mesi sono stati uccisi almeno 64 pirati somali, altri 24 sono rimasti feriti e almeno 500 catturati, le loro fila non si sono assottigliate.
A chi vuole essere pirata viene promesso denaro, cibo, protezione e altro. Tutto questo è allettante per chi vive in Somalia e conosce la miseria più nera.

Ora, mentre finora i pirati somali si sono armati solo con fucili d’assalto, russi o cinesi, lanciagranate e  pistole, armi che sebbene hanno una portata di 500 metri e sono utilizzati dai barchini, e quindi non davano una stabilità  di tiro e di precisione, e che sortivano un effetto intimidatorio nei confronti dei marittimi membri degli equipaggi delle navi attaccate, il rischio è che si possano dotare, come controrisposta ai contractor sulle navi,  di armi decisamente più «incisive», con conseguente inasprimento e violenza negli attacchi. E’ solo una questione di tempo poi, di certo,  ricorreranno ad armi più sofisticate e potenti dovendosi, allo stato attuale, confrontarsi con gli uomini della sicurezza equipaggiati con armi di precisione in grado di colpire obiettivi  a 800- 1800 metri di distanza e sparando dal ponte di una grossa nave che è molto più stabile. Per il fatto che, nonostante tutto, non mancheranno mai braccia per l’industria del crimine collegata con la pirateria marittima, i governi della regione fanno pressione  più sulla cattura e detenzione dei pirati somali che sul combatterli apertamente e anche ucciderli. Per molti, il pensiero di dover trascorrere anche pochi anni in una prigione, specie in un Paese del Corno D’Africa, rende meno attraente l’idea di diventare pirata.

La lotta contro la pirateria marittima somala è però, ricca di problemi giuridici e pratici

Il quadro giuridico è inadeguato e le leggi contro la pirateria risalgono a più di 200 anni fa. La convenzione delle Nazioni Unite sulla
Legge del mare, che definisce la pirateria come crimine internazionale, non è stata infatti, recepita da tutti i Paesi. Sono appena 17 i Paesi che hanno messo sotto processo un migliaio di pirati somali. Tra questi primeggiano Olanda, Francia e Spagna e ultima Italia. Mentre negli USA nel 2010, dopo quasi due secoli,  è stato celebrato un processo per pirateria marittima, il primo di una lunga serie. Però, ad essere stati condannati a pene detentive  sono finora solo un centinaio di predoni del mare. Questo perché i loro avvocati riescono a trovare dei cavilli legali o per la mancanza di prove.  Ancor peggio perché non ci sono Paesi pronti
ad accoglierli nelle loro prigioni. Il costo della prigionia dei pirati somali e della repressione per i reati compiuti è costato alla comunità internazionale, nel 2010, almeno 31 milioni di dollari. Processare i pirati catturati è di pertinenza del Paese dell’imbarcazione attaccata o della nave da guerra intervenuta per sventare l’assalto. Però, possono processare i pirati anche Paesi che abbiano altri legami con il caso, ad esempio la nazionalità di membri dell’equipaggio attaccato.
Quasi sempre questi Paesi si rifiutano di processare i pirati o fanno sapere di non poterlo fare nei tempi richiesti.

La maggior parte dei pirati sono catturati dalle navi da guerra delle missioni internazionali
In quello che è stato ribattezzato ‘il mare dei pirati’ sono infatti, dispiegate navi da guerra di almeno 25 Paesi. Oltre agli USA e i suoi alleati della NATO e Europa, anche quelle della Russia, Cina, India, Giappone, Pakistan, Corea del Sud, Malesia, Arabia Saudita, Iran, Egitto, Filippine, Australia e altri.
Un dispositivo antipirateria suddiviso in diverse missioni internazionali come quello creato dal Pentagono e gestito dalla V Flotta USA, il ‘Combined Task Force, Ctf-151’, quella dell’Alleanza Atlantica ‘Ocean Shield’ e la missione ‘Atalanta’ a guida Ue.
Persino l’ONU è coinvolto nella lotta alla pirateria marittima. La prima missione navale internazionale in chiave antipirateria marittima venne infatti, proprio autorizzata dal Consiglio di Sicurezza con la risoluzione 1838 del 5 ottobre 2008. Una risoluzione che autorizzava qualsiasi nave a perseguire le navi pirate nelle acque territoriali somale.
Di fatto qualsiasi nave da guerra di un Paese che dichiara di voler combattere la pirateria marittima può indiscutibilmente navigare in lungo e in largo nel mare del Corno D’Africa e non solo. Però, questi Paesi, sono gli stessi che si affannano a voler dimostrare l’efficacia della loro politica di non negoziare con i pirati somali e di non aver, almeno ufficialmente, pagato mai un riscatto. Questi stessi Paesi ora pagano milioni di dollari l’anno per mantenere le loro navi da guerra dispiegate nel ‘mare dei pirati’, con costi proibitivi: ogni nave da guerra infatti, costa al proprio Paese, al giorno, circa 100mila dollari. Il computo per difetto del costo della sola missione Ue ‘Atalanta’ è di circa 2 milioni di euro al giorno pari a 720milioni all’anno. All’Italia una missione di circa tre mesi di un’unità navale della Marina Militare costa circa 9 milioni di euro. Appare immediatamente chiaro che mentre da un lato si cerca di non pagare ai pirati somali quei circa 100-200 mln di dollari in riscatti, questo è il ricavo stimato dei pirati somali annualmente, dall’altro poi si spendono migliaia di milioni di dollari per combatterli: almeno 5 mld l’anno. Un costo altissimo da cui si ricevono pochi benefici.
Ed è forse anche per questo che stanno crescendo i ricorsi ai team di sicurezza a bordo delle navi.  Anche in considerazione del fatto che il ricorso a queste squadre di sicurezza armate a bordo delle navi consente anche un ritorno economico.  Infatti, si risparmia sui costi per il carburante, in quanto la nave procede a bassa velocità, e anche perché, si riducono i tempi della navigazione in quanto non si deve fare un giro più largo per evitare le aree a rischio. Inoltre, le assicurazioni riconoscono uno sconto sui premi assicurativi. In molti casi il risparmio oltre a compensare il costo dei team di sicurezza a volte si tramuta anche in guadagno. L’unica cosa che si deve tenere conto è che bisogna rivolgersi alla compagnie marittime di sicurezza giuste.  Nel mondo ne operano solo una dozzina per lo più inglesi.

Anche EUNAVFOR è la principale responsabile del crollo dell’attività criminale dei pirati somali. Si tratta di una delle missioni navali internazionali di contrasto alla pirateria marittima al largo della Somalia. La missione europea ATALANTA. Una missione che in tre anni di attività di contrasto ha colpito duramente i pirati somali ‘beccandosi’ anche  accuse  per il comportamento duro dei suoi militari  verso i predoni del mare. L’Alto comando EUNAVFOR si è però difeso spiegando che la legge vale per tutti anche per i militati e che nessun crimine è stato commesso. Però, ha anche spiegato, che in questa circostanza si è dovuto agire con polso fermo. Le accuse rivolte derivano dal fatto che in molti casi quando un’unità navale militare della missione ha incrociato in mare aperto una barca con degli uomini a bordo e l’ha fermata per controlli, quando i militari della marina vi hanno trovato a bordo armi, scale, funi, barili di carburante e altre apparecchiature, le hanno sequestrate e poi hanno affondato la barca, mentre gli uomini a bordo sono stati condotti sulla terraferma e rilasciati senza essere arrestati.  Molti pescatori somali hanno lamentato di essere stati vittima di questa pratica. In Somalia è usanza, tra i pescatori di andare per mare armati. Questo per evitare che qualcuno tenti di rubare loro il pescato. Purtroppo, con i tempi che corrono, chiunque giri armato per il ‘mare dei pirati’ può essere un potenziale pirata. Tanto è vero che l’Alto comando EUNAVFOR giustifica il comportamento dei sui militari della marina con il fatto che  gli uomini trovati in mare con armi possono potenzialmente commettere atti di pirateria e per questo sono messi, forse in maniera impropria ma valida, ‘fuori gioco’. Le regole di ingaggio consentono alle missioni navali internazionali antipirateria di poter arrestare i predoni del mare solo se colti in flagranza di reato o se hanno commesso un crimine provabile. I pirati somali questo lo sanno bene e quando  incappano in una nave da guerra quasi sempre si disfano dei loro ‘attrezzi da lavoro’ gettandoli in mare ed eliminando di fatto le prove del loro crimine. Non sempre però gli va bene. Lo dimostrano gli oltre mille pirati finora incarcerati o in attesa di giudizio in diverse parti del mondo. Ci sono comunque  anche forze navali provenienti da Paesi come la Russia, India, Corea del Sud, Cina e tanti altri, che contribuiscono in varia misura alla pirateria marittima.

Tra questi Paesi l’India e la Corea del Sud sono i più attivi e aggressivi nel perseguire i pirati somali.

I predoni del mare hanno preso atto  di questo e hanno cominciato a vendicarsi rifacendosi sui cittadini indiani e sud coreani membri degli equipaggi delle navi che catturano. Da tempo le gang del mare hanno adottato per questi marittimi-ostaggi una prigionia più dura e, sebbene la loro nave venga rilasciata, essi spesso sono trattenuti ulteriormente dai pirati somali. Come di recente è avvenuto per il rilascio della MV Gemini  che era stata catturata il 30 aprile scorso con 25 marittimi a bordo. I 4 lavoratori del mare sud coreani non sono stati rilasciati. Sono almeno 50 i marittimi indiani e una decina quelli sud coreani in mano alle gang del mare somale. In cambio del loro rilascio i predoni del mare chiedono la scarcerazione dei loro compagni. Più di un centinaio di pirati somali sono ‘ospiti’ delle prigioni indiane e sudcoreane. La questione con molta probabilità riguarda anche la petroliera italiana ‘Savina Caylyn’ a bordo della quale vi sono 17 marittimi indiani oltre a 5 italiani. La nave è stata catturata lo scorso 8 febbraio e le trattative per il suo rilascio stanno registrando alterne situazioni dettate da diverse condizioni.

I pirati somali  hanno finora sequestrato e dirottato decine e decine di navi e raccolto centinaia di milioni di dollari di riscatto nel corso degli ultimi sei anni. Il primo caso di pirateria marittima al largo della Somalia si verificò nel 2005.
Da allora sono caduti nelle mani dei pirati somali migliaia di marittimi e alcuni di loro sono anche morti nel corso di attacchi o in prigionia.  Secondo stime non confermate, i lavoratori del mare morti finora a causa della pirateria marittima in tutto il mondo sono almeno 60, di questi una decina sono morti in Somalia. Tra le cause principali di morte le torture, l’esecuzione, il suicidio, le malattie e la malnutrizione. Attualmente sono prigionieri in Somalia almeno 200 marittimi e anche una coppia di velisti-turisti sudafricani. Bruno Pelizzari e Deborah Calitz catturati nell’ottobre 2010 mentre erano a borodo dello yacht Choizil.
Almeno una donna è quindi  ostaggio dei  pirati somali, ma ci sono anche dei minori, mozzi a bordo di pescherecci egiziani catturati.
Per molti di loro la prigionia dura anche da oltre un anno. Si tratta di lavoratori del mare che provengono da Paesi come Italia, Danimarca, India, Ghana, Sudan, Sri Lanka, Pakistan, Indonesia, Filippine, Corea del Sud, Cina, Myanmar, Ucraina, Russia, Yemen e altri ancora.

Ferdinando Pelliccia

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