In occasione della XXVI edizione del Premio Letterario “Procida Isola di Arturo Elsa Morante” il premio traduttori è stato assegnato a Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco per la traduzione del libro “Il Barone Sanguinario” di Vladimir Pozner, edito da Adelphi pagg. 320, euro 22.
Lorenza di Lella è traduttrice editoriale freelance e tiene corsi di traduzione letteraria a Napoli e Roma. Oltre a Pozner (Adelphi), ha tradotto B. Hale (Ponte alle Grazie), R. Debray (Fazi), J.- Ph. Toussaint (per Barbès, con Federica Di Lella) e M. Tremblay (per Playground, con Maria Laura Vanorio). Giuseppe Girimonti Greco insegna traduzione letteraria a Milano e Napoli. Ha tradotto e curato opere di H. Michaux, L. Finas, P. Assouline etc.; traduce R. Jauffret a quattro mani con M.L. Vanorio. Nel 2010 a una sua traduzione (V. Pozner, Tolstoj è morto, Adelphi) è stato assegnato il Premio Lionello Fiumi.
“Siamo molto onorati di ricevere questo premio così prestigioso per un libro che ci ha appassionato sin dalle prime pagine. L’emozione – precisano Lorenza di Lella e Giuseppe Girimonti Greco – ci deriva anche dal fatto che nel corso delle edizioni precedenti il premio è stato assegnato a traduttori straordinari, i cui nomi sono legati a libri importanti. Cogliamo l’occasione per ringraziare vivamente la casa editrice Adelphi, che ci ha permesso di lavorare in condizioni ottimali, e in particolare Ena Marchi e Valeria Perrucci.”
Giusto sottolineare che il Premio organizzato dal Comune di Procida, nel panorama nazionale e non solo, è tra i pochi che offre pari dignità a scrittori e traduttori. I libri, infatti, non si traducono da soli e la traduzione, che per il traduttore significa spesso molti mesi di impegno intellettuale, spirituale, psicologico e anche fisico, determina il successo (e, purtroppo, qualche volta anche l’insuccesso) di un autore e di un’opera nella lingua di arrivo.
Guglielmo Taliercio
Il Libro
Quando accetta la proposta di Blaise Cendrars di scrivere un libro per la sua collana di biografie di avventurieri, e sceglie – in modo apparentemente incongruo per un comunista militante – di occuparsi del barone von Ungern-Sternberg, Vladimir Pozner non immagina certo che questa volta non gli basterà consultare (come aveva fatto per Tolstoj è morto) una mole immensa di documenti, ma che gli toccherà condurre un’ardua inchiesta, nel corso della quale imboccherà, per poi abbandonarle, una quantità di false piste e si imbatterà in testimoni più o meno inattendibili: dall’ex colonnello di Ungern ridotto a fare il tassista alla coppia di decrepiti aristocratici parigini che hanno conosciuto il barone in fasce (e che di quel paffuto bebè gli manderanno una foto), sino a «fratello Vahindra», il sedicente monaco buddhista che spaccia per il figlio segreto dello stesso Ungern il pallido adolescente dai tratti asiatici con il quale vive in una squallida mansarda… A poco a poco, però, il narratore riesce ad afferrare il suo eroe, e ce ne svela gli aspetti più inquietanti e contraddittori (nonché ambiguamente seducenti): solitario, taciturno, imprevedibile, irascibile, sadico, paranoide, ferocemente antisemita, superstizioso, misogino, frugale, idealista, marziale, il barone Ungern ha tendenze mistiche, si considera erede di Gengis Khan e si crede investito di una missione provvidenziale – quella di riconquistare l’Occidente partendo dal cuore della Mongolia.