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Mett’re ‘u cul’a marmula

Giuseppe Ambrosinodi Pauliello

Nel periodo dell’ultima guerra anche a Procida ci fu la fame e la miseria. Alla fine di essa mentre la fame scomparve, la miseria perdurò ancora per parecchi anni.

Ricordo che i contadini di Solchiaro, negli anni ’50, stavano sempre pieni di debiti, nonostante si rompessero le ossa per la fatica, sulle “schiappe”, dall’alba al tramonto.

E’ vero che per sfamarsi, sfruttavano i prodotti della terra, per coprirsi usavano i vestiti usati, ma per il padrone di casa, per la fondiaria, per la “petèca” ci volevano soldi. Soldi in continuità.

E per racimolare qualche lira dovevano aspettare la raccolta delle patate, la raccolta dei carciofi, la raccolta dei limoni.

E non sempre le annate erano favorevoli. Quasi ogni anno o la “malanza” distruggeva le patate, o il gelo non faceva spuntare i carciofi o la salsedine bruciava i limoni ed in questi casi i poveri disgraziati, erano costretti a vendere persino l’uva, con la rinuncia, anche ad un buon bicchiere di vino. Qualche contadino più previdente, allevava sì, galline e conigli, ed anche qualche maiale, ma questi si consumavano in famiglia e non producevano soldi.

Gli unici soldi si guadagnavano con la crescita dei vitelli per conto di “Chianchetto”. Costui era un macellaio, che affidava al contadino uno o più vitelli, di peso inferiore al quintale e poi li ritirava quando ormai erano diventati bestioni di quattro o cinque quintali. “Chianchetto” ci metteva il vitello e il contadino ci metteva l’erba e la fatica.

La convenienza per il contadino era che “Chianchetto” gli anticipava i soldi per il padrone, i soldi per il salumiere e anche i soldi per il medico e le medicine, qualora il povero cristo o qualche familiare accusasse qualche “vuocio di chepa”. In parole povere, Chianchetto funzionava come una banca.

E per avere più possibilità di soldi qualche contadino si adattava ad allevare quanti più buoi possibili. Doveva fare i conti però con la disponibilità dell’erba, che d’estate scarseggiava, e poi difendersi dalla concorrenza dei carrettieri del luogo, che gli venivano a rubare anche quella poca erba, per sfamare i propri cavalli.

E allora per il povero cristo non restava che comprare la crusca, che guarda caso, la vendeva lo stesso “Chianchetto”.

E se in qualche annata, particolarmente sventurata, alle spese normali si sommavano anche spese impreviste, nonostante la generosità (si fa per dire) di “Chianchetto”, si finiva per non poter pagare completamente i debiti.

Hai voglia, in questi casi di raccomandare in famiglia di non fare spese superiori agli incassi.

Ricordo che in questi casi il nonno, aspirando rabbiosamente la pipa vuota di tabacco, concludeva con grande scoramento: – Nun ce resta che mett’re ‘u cul ‘a marmula!-

Allora io incuriosito da queste parole, che ai miei orecchi innocenti suonavano come una cupa sentenza, – Nonno – chiedevo – che cosa è “‘a marmula “?

Vagliò – mi spiegava allora il nonno con sussiego-  Devi sapere che, anticamente, quando non potevi pagare i debiti, quando questi erano proprio assai, ti presentavi alle autorità e dichiaravi di non possedere altro che i pantaloni e le mutande. Le autorità allora ti portavano sulla piazza principale, ti facevano mettere con il culo da fuori e ti costringevano ad esporti al disonore di tutti, legato ad una colonna di marmo, così, nudo e miserabile.

E così mostrando le tue “vergogne”, i tuoi debiti ti venivano interamente rimessi.

Io allora ridevo dentro di me, perché pensavo a quella povera “Giovannina ‘a chiattona”, che non aveva nemmeno una lira e non aveva nemmeno la possibilità di crescere i buoi, in quando doveva accudire il marito a letto, che povero disgraziato aveva avuto il “tocco”.

L’esposizione del suo grosso culo sulla “marmula” non gliela poteva evitare nessuno.

A Procida c’era una “marmula” che era conosciuta come la “vreccia di Callìa”. Io allora, che non ero ancora uscito dall’isola, pensavo che fosse proprio quella, la ”marmula”, di cui mi parlava il nonno .

Poi da grande ho appreso che a Napoli esisteva realmente tale “marmola”, una colonna di marmo bianco voluta dal viceré don Pedro di Toledo ed eretta nel 1540 a destra dell’ingresso di Castel Capuano, Proprio sul basamento di tale colonna veniva esposto il debitore insolvente, che dopo essersi completamente calato le braghe, doveva pronunciare queste strane parole: “cedo bonis”.

Parole che i napoletani avevano distorto in “zita bona”, come per addolcirne l’umiliante castigo, ma che in effetti significava, per il disgraziato che le pronunciava: – rinuncio a tutti i miei beni compreso il mio onore -.

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3 commenti

  1. Sempre grande il nostro Pauliello! Grande nei racconti del passato che, con grande tempistica, vanno letti nell’ottica delle circostanze attuali….

  2. Vittorio Palazzo

    Sei grande Peppì !!!
    I tuoi racconti sono sempre appassionanti.
    Ci fai rivivere quell’epoca così aspra.
    Eppure,oggi,ancora drammaticamente attuale:oggi il culo ci tocca venderlo !
    Non basta più esibirlo x vedere condonati i debiti.

  3. Egregio dott. Pauliello ci mettete con garbo di fronte ad un fatto conclamato : l’assoluzione dei nostri disonorevoli peccati deve essere espressa nel collettivo !
    Difatti ” u-cula-marmula ” deve avvenire davanti a tutti i cittadini per essere valido come penitenza definitiva d’ogni dovere non assolto .
    Ma se la disgrazia ci punisce di per se…per che infierire oltre misura ?
    Per che costringere la vittima a subire il danno oltre alla beffa…collettiva ?
    Forse per che nella gioia come nel dolore, rendere conto alla comunità d’ogni nostro esperimento rappresenta un rituale scaramantico ?
    Oppure si raggiunge il fine di dissuadere ogni similare comportamento ?
    O anche si adopera tale insegnamento per le generazioni inesperte ?
    O semplicemente per scherno !

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