Lasciato alle spalle il palazzo D’Avalos, attraversi la piazza d’armi e, percorrendo la frescura ombrosa del tunnel della Porta Romanica, ti trovi nel vasto spiazzo antistante l’antica chiesa di Santa Margherita Nuova con il convento annesso o quel che ne resta. E’ un trionfo di luce, di mare e di colori. Sulla sinistra altre ali del carcere, ancora e sempre carcere: l’infermeria dove una volta (ora è crollata) c’era la veranda per far prendere il sole ai detenuti ammalati di petto, le lavanderie, magazzini vari. Il tutto a picco sul mare, quasi in precario equilibrio. Ti affacci al muretto del terrazzo della chiesa e ti ritornano in mente le parole del vecchio curato di S. Michele, don Luigi Fasanaro, un religioso dall’alta e ieratica figura di prete d’altri tempi:”Questa chiesa e questo convento furono costruiti qui perché i monaci non potevano rimanere più a Santa Margherita Vecchia alla Chiaiolella. Era diventato troppo pericoloso per loro attraversare di notte il paese. Uno di loro fu aggredito ed accecato da un saraceno.” E tu ti chiedi: leggenda o realtà? Quel che è certo e che a Procida nel ‘500 c’erano già un convento ed una chiesa dedicati a Santa Margherita, giù alla Chiaiolella, sulla collinetta omonima. Perché costruire un altro complesso simile e sotto lo stesso titolo sul punto opposto dell’isola? Sicura, però, è la circostanza che il convento della Chiaiolella era troppo decentrato rispetto al resto del paese, anche in considerazione del fatto che i frati di giorno officiavano per l’isola e di notte si ritiravano in convento. D’altra parte fin dal 1560 i monaci figli di S. Domenico avevano abbandonato, forse veramente per i motivi della pericolosità, la sede della Chiaiolella e si erano sistemati in un oratorio al centro del paese , in quella che diventerà la chiesetta di S. Vincenzo. E poi ti chiedi ancora: che senso aveva costruire un’altra chiesa con annesso convento a pochi metri dalla parrocchia madre di S. Michele? Con la logica di oggi tutto ciò ti sembra illogico, ma se ti cali nel modo di ragionare dell’epoca qualcosa riesci a comprendere. Devi innanzitutto considerare che in quel tempo l’ordine dei Domenicani era molto potente e riverito. Questi, predicatori per antonomasia, erano definiti “Domini cani”, vale a dire “cani del Signore” per la veemenza che mettevano nelle loro omelie. E non devi neanche dimenticare che in quel periodo si era in piena “controriforma” i cui pilastri nel ristabilire l’ortodossia teologica cattolica, scossa ampiamente dalla riforma Luterana, erano soprattutto i Domenicani e i Gesuiti. E anche…dell’Inquisizione. Si deduce che l’ ordine dei Domenicani era di tutto rispetto e che, se una loro sede per un qualsiasi motivo veniva chiusa, ne doveva essere aperta un’altra tempestivamente. Il cardinale D’Avalos, feudatario di Procida, era una persona molto intelligente e un fine politico, aveva un corpo di guardia personale, amava circondarsi di comodità, prediligeva la buona tavola e la caccia: era un principe del rinascimento. Ma la sua passione venatoria non poteva estrinsecarsi appieno su Terra Murata e allora… ecco il suo lampo di genio: propone ai Domenicani di Santa Margherita vecchia, alla Chiaiolella, di cedergli tutto il terreno boschivo annesso al convento per soddisfare le sue esigenze di caccia. In compenso avrebbe dato loro l’equivalente di terreno su un promontorio dell’isola nella zona di Terra Murata, in località “La taglia”, detta così dal taglio delle pietre che vi si faceva per la costruzione delle abitazioni di Procida. Siglato l’accordo tra il cardinale e l’ordine dei Domenicani si diede inizio ai lavori per la costruzione della nuova struttura che fu ultimata nel 1586, anno che vide il trasferimento canonico dei monaci nella chiesa di Santa Margherita detta perciò Nuova. Da allora il promontorio isolano su cui furono eretti il convento e la chiesa è stato chiamato ( e lo è ancora oggi) “Punta dei monaci”. Questa struttura si protende a picco sul mare in cui sembra voglia scivolare da un momento all’altro. Dal terrazzo del convento, ormai semidiruto, si può osservare uno dei panorami più fantastici di Procida e si prende quasi con mano il complesso arabesco della Corricella. Ma la nuova comunità conventuale non ebbe vita facile perché rimase invischiata in diatribe legali con il Cardinale ed il Clero locale. I monaci si sentivano defraudati perché i moggi di terreno che avevano ceduto alla Chiaiolella erano sette, mentre quelli che avevano ricevuto a Terra Murata erano cinque. E proprio per compensare questa discrepanza i Domenicani pretendevano di non pagare al Clero di Procida lo “jus mortuorum”. La questione si risolse il 5 agosto 1731 con un accordo in cui i padri si impegnavano a pagare 18 ducati in beneficio dell’abbazia di S. Michele , ma in compenso potevano seppellire i loro morti nel cimitero della propria chiesa. La storia incombe con il suo peso, ma tu, tutto preso dal fascino e dalla bellezza del luogo, tendi a dimenticartene. Questa chiesa, di recente restaurata magnificamente, ti accoglie nel suo interno dal barocco purissimo e pur lineare. Attraverso una porticina dietro lo splendido altare di marmo esci sull’ampio terrazzo, che poi sarebbe il tetto del convento sottostante, ed il vento fresco di maestrale dal sapore di acqua salata ti investe sul volto. La parte superiore del monastero è quasi del tutto crollata sotto l’azione del tempo con la complicità del vento, della pioggia e della salsedine. E’ rimasto solo un arco, là in fondo, sulla parte più scoscesa della roccia, quasi una sentinella a pochi metri dal mare. E la storia riprende il sopravvento: questo complesso monastico è intimamente connesso alla vita di Procida ed alle sue vicissitudini. Durante la repressione anglo- borbonica del 1799 funse da “confortatorio” per gli impiccandi del I° del 15 giugno dello stesso anno. E ti sembra di udire ancora le loro implorazioni e le loro imprecazioni contro un destino avverso. Ma è solo il rumore del mare che frange ed il grido rauco dei gabbiani.
