Inoltrandoti nel borgo di terra Murata vieni a trovarti di fronte ad un maestoso edificio dall’aspetto severo e squadrato le cui origini e le cui funzioni sono piuttosto nebulose ed ancora oggi oggetto di dispute ed opinioni. Di sicuro la sua epoca di costruzione è antecedente a quella del palazzo D’Avalos e ciò si deduce dalla sua linea architettonica chiaramente non rinascimentale bensì medievale. Illuminante a tal proposito è stato il ritrovamento, durante i recenti lavori di restauro, di soffitti a travi legno simili a quelli esistenti in altre costruzioni coeve del borgo di Terra Murata e tipici del periodo. Anche se le sovrapposizioni successive ne hanno certamente alterato in parte la primitiva conformazione, la struttura del palazzo nei suoi elementi essenziali è rimasta quella originale. Questo palazzo, insieme all’abbazia di S. Michele ed alla cappella della Purità, costituisce il nucleo primitivo del borgo della “ Terra Casata” che poi verso la fine del ‘500 diventerà “Terra Murata” ad opera del cardinale. Certo tu, uomo di oggi, nell’apprendere di queste trasformazioni radicali di un territorio, di un borgo, di un paese rimarrai sorpreso e perplesso, ma non lo devi essere più di tanto: quattro- cinquecento anni or sono ( e prima ancora di più) non c’erano regole, non c’erano piani paesistici, non c’erano organi di controllo ed ognuno poteva sbizzarrirsi come meglio riteneva. Metti il caso che il Cardinale D’Avalos, feudatario di Procida e quindi “dominus” incontrastato del territorio, si sia alzato una mattina e si sia reso improvvisamente conto che il suo feudo così com’era gli stava stretto, chi gli poteva impedire di stravolgerne completamente la struttura? Tu mi dirai che questo cardinale non era un folle e che le sue decisioni saranno state dettate da motivazioni serie ( il pericolo corsaro, ad esempio) e non da un ghiribizzo ed è molto probabile che le cose stiano così, ma il risultato finale è sempre lo stesso: la planimetria e la conformazione del vecchio borgo medievale preesistente sono state distrutte ed annullate sotto i colpi di piccone delle maestranze del Cardinale. Se questo profondo travisamento sia stato un bene o un male nessuno è in grado di deciderlo, ma è un dato di fatto. Il palazzo del conservatorio delle orfane risale al XIII secolo e molto probabilmente (ma non ci sono prove) fu il palazzo signorile di Giovanni da Procida. A pochi metri dalla porta secondaria della chiesa di S. Michele, con cui tramite la cappella della Purità ed un altro corpo di fabbrica fa corpo, è il simbolo della vicinanza e della coesistenza del potere politico e di quello religioso, spesso in contrasto fra di loro. L’insieme della chiesa abbaziale, del Conservatorio e della cappella della Purità costituisce “l’insula” di S. Michele, primitivo centro politico- religioso di Procida. Il Conservatorio era la sede del governatorato e delle decisioni politiche che venivano prese nella cosiddetta sala della “Rapa”, poi trasformata, secondo il Parascandolo, nella cappella della Purità. A guardarlo dall’esterno noti sulle facciate del palazzo quattro archi di piperno incorporati nelle mura che stanno ad indicare che in quel posto c’erano quattro grandi aperture, due rivolte verso la porta di “Mezz’omo” e due verso l’ingresso della chiesa di S. Michele, successivamente murate nel XVII secolo, che probabilmente rappresentavano le vie di ingresso nel forte di uomini e cavalli. La parte esterna della costruzione, quella a picco sul mare verso sud-est, è contraffortata così come la cappella della Purità. Quest’ultima è collegata al palazzo attraverso una scala elicoidale all’interno del contrafforte della cappella stessa. La roccia su cui poggia il complesso palazzo- cappella non è friabile nella misura in cui lo è quella sottostante la chiesa di Santa Margherita che attraverso il fenomeno dello “sgottamento”, vale a dire la costituzione da parte del frangere delle onde marine di vere e proprie gallerie nella montagna, permette l’entrata del mare all’interno della stessa con pericolo costante di crolli. Il palazzo del Conservatorio delle orfane si articola su quattro livelli di cui uno interrato, sede di depositi, magazzini e di una grossa cisterna per l’acqua piovana. E’ probabile che la parte sotterranea, che si estende fin sotto la cappella, servisse come carcere o luogo di correzione. Per altri invece il luogo deputato a tale bisogna sarebbe stato quello che sarebbe diventato, nel 1651, ad opera dell’architetto Edgidio Gigli, la cappella della Purità. Esistono all’interno di esso due rampe di scale di cui una va dal piano terra ai sotterranei ed un’altra ai piani superiori dotati di ampi terrazzi da cui si gode un panorama spettacolare. Basti pensare che la terrazza dell’ultimo piano di questo palazzo è il punto più alto di tutta Procida alla pari della torre campanaria della chiesa di S. Michele. Lo sguardo spazia a trecentosessanta gradi, oltre che sulla piana dell’isola in basso, verso Monte di Procida, Miliscola, Capo Miseno e via , via fino a Napoli, il Vesuvio, Sorrento e Capri. Sul lato sud Ischia si prende con mano e nei giorni chiari si scorge il profilo di Ventotene. Il tutto in uno sfolgorio di luci e di toni ora accesi ora tenui nei giorni quieti, ora grigi e drammatici nei giorni di tempesta. Intorno a questo maestoso complesso, sulle sue origini e le sue funzioni regna una grande incertezza per lo meno fino al 1651, anno in cui l’Università di Procida, di concerto con il Clero di S. Michele ed il sacerdote Vincenzo de Iorio, decise di farne un conservatorio per le giovani fanciulle procidane orfane. In quel periodo, infatti, c’era stata a Procida un’epidemia di peste. Sempre nel XVII secolo fu costruita la piccola scala esterna che da sulla strada utilizzando parte del materiale derivante dall’abbattimento della porta di “Mezz’omo”. Durante il periodo borbonico il Conservatorio fu gestito da una commissione comunale. Nel 1862 fu affidato alla Congrega di carità e guidato dalle suore di Ivrea. In questi ultimi anni ha perso la sua funzione di orfanotrofio e, dopo un accurato restauro è diventato il “Palazzo della cultura” ospitando una sede distaccata dell’Università Orientale di Napoli. E tu, guardando il palazzo, chiudi gli occhi e vedi ancora uscire dal portone le orfanelle, vestite di nero o di grigio secondo l’occasione, in fila per due, sotto lo sguardo vigile e burbero della corpulenta suor Colomba. Cose d’altri tempi. E, forse, è meglio così!
P.S. Le notizie sono state gentilmente fornite dall’arch. Luigi Calabrese che ha curato il restauro della struttura.
Ogni volta che mi soffermo a leggere i commenti dei vostri abituali collaboratori scopro, attinenze e coincidenze a cui non avevo posto attenzione in precedenza.
E mi ritornano in mente alcune affermazioni di
personaggi a voi collegati e per vari versi coerenti .
Qui su terra ferma, trovo occasionali e periodici corrispondenti, che
non avrei potuto immaginare di nostra e vostra conoscenza . Ma non faccio nomi !